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Lo scorso 4 ottobre è uscito per La Barberia Records e Vaccino Dischi “Arto”, il nuovo album di Setti. Per l’occasione, abbiamo deciso di intervistarlo, e se non lo conoscete ancora, è meglio che rimediate subito. Di seguito tentiamo di riassumere in poche parole tutto quello che c’è da sapere, poi comincia l’intervista: Setti è un artista modenese, una specie di cantautore semi-serissimo che scrive canzoni a metà tra l’ironia e il dolceamaro. La prima cosa che ricordo di lui è quando suonava a casa della gente all’ora della colazione o della merenda, ma da lì in poi sono successe molte altre cose. Quando c’è un concerto di Setti quasi tutti sanno le sue canzoni a memoria, o almeno questo è quello che succede dalle nostre parti e che voglio immaginare succeda ovunque. Tutto quello che si può ascoltare di lui è sul Big Cartel de La Barberia.
Ciao Setti, cominciamo subito: durante il loop di ascolti di “Arto” mi è successo si scorgere un punto in cui il disco si divide in due. Una specie di crepa: da “Stanza” a “Bestia” mi sembra di ascoltare un disco, poi da lì in poi secondo me diventa un disco diverso. Questa cosa è vera?
Ciao Enrico. Sì in effetti è una cosa abbastanza voluta. Dico abbastanza perché ho fatto la scaletta, una volta completati tutti i pezzi, basandomi sul mio gusto, su come li sentivo insieme. Mi sono poi accorto che c’era una prima parte molto compatta e incentrata sull’America, o l’immaginario americano filtrato dalle opere d’arte. Poi da Bestia in poi ci si comincia a spostare, sia geograficamente che stilisticamente, dal Sud America e all’Europa, fino al finale che è dentro di me ma anche una reprise del primo pezzo, quindi circolare. Cercavo di creare un’emozione, una piccola sorpresa anche con la scaletta, in modo da costruire una certa idea nella parte iniziale e poi andarla a cambiare o spostare nella seconda. Cioè partire da alcuni presupposti e poi andarli a tradire. È un disco che secondo me richiede ascolti e impegno, ci sono alcuni livelli di lettura. Il più è decidere se glielo si vuole dare. C’è da dire che è molto breve, è un viaggio corto, un viaggetto. In ogni caso questo è come lo vedo io che l’ho fatto ma vorrei che ognuno ci vedesse qualcosa di unico e suo.
Parliamo della copertina: ci sei tu dentro ad un cerchio. Ha qualche significato particolare? Io non so se interpretarlo come una cornice o un mirino
In effetti qualcuno in effetti mi ha detto che sembra un po’ alla James Bond. Un mio amico quando l’ha vista mi ha scritto “zero zero setti”. In realtà è andata così: mi hanno consigliato di provare a fare una foto per la copertina di questo disco, allora abbiamo fatto una session con il bravissimo Lucio Pellacani. Lui aveva uno di quei cerchi da fotografo per riflettere la luce. Dopo un po’ che scattavamo gli ho chiesto di provare a metterlo dietro, attaccato al muro. Poi alla fine, quando ho visto i risultati, questa è stata subito la foto che mi ha attratto di più e l’ho scelta. Un po’ perché in primo piano c’è un arto, appunto. Un po’ perché il cerchio per me rappresenta il disco, sia in vinile che in cd in fondo è un cerchio, che è la forma del disco. Ma ogni disco ha dentro altro, non è solo un cerchio. Dentro ad esempio a questo cerchio ci sono io, che sono tutt’altro che geometrico. Stampato sul cd ad esempio abbiamo messo un quadrato, come sull’etichetta del vinile. Era tutto un viaggio mio sulla forma, la sostanza e la percezione. Anche nell’artwork che ho realizzato con Alessio Trippetta ci sono molti effetti ottici che non svelo. Mi piace farmi dei viaggi come si è capito, poi questo disco per me è decisamente circolare. Quindi sì, la cornice in cui racchiudiamo la realtà alla fine spesso è un po’ il nostro mirino, volendo tornare alla domanda.
In alcune delle canzoni di “Arto” si avverte una strana sensazione di disillusione, intesa più o meno positivamente a seconda dei pezzi. L’amore non corrisposto dentro “Iowa”, il concerto dei “Woods” che non riesci a vedere ma «non fa niente, sono là», la lucidità con cui in “Stanza” canti che era meglio un altro al posto tuo. “Arto” quindi è un disco che chiude uno o più cerchi, o che cerca di farlo?
Mi piace il fatto che ritorni la parola “cerchi” nelle tue domande. In effetti scrivere canzoni per me è anche una ricerca, presuppone che io cerchi quindi. In effetti molti personaggi del disco sono persone che “non fanno cose”, o smettono di farle o non le hanno fatte quando potevano, o non hanno mai potuto. Mi affascinava molto anche un approccio un po’ distante all’argomento, che sento tante volte trattato in Italia con molto melodramma o autobiografismo. Cercavo un approccio più anglosassone ai sentimenti e al narrare, in fondo prediamo spesso spunto a livello sonoro dalla musica prodotta in America o in Inghilterra, ma forse un po’ meno dal modo che hanno di costruire i testi in quei paesi. Questo a livello prettamente formale o stilistico. Le canzoni sono nate negli anni e poi si sono messe insieme da sole per formare Arto nella mia testa, sono quelle che ancora mi piace cantare e raccontare. Alla fine chiudere un cerchio vuol dire che non sai nemmeno più qual è l’inizio probabilmente, quindi forse è più un disco che cerca di entrare in un cerchio, in una cerchia di persone, più che chiuderlo. Ma la scrittura per me è abbastanza istintiva quindi non posso dire che ci fosse un’intenzione iniziale. Di certo quando scrivo cerco sempre di sorprendermi e di non farmi sconti. Quindi non so bene nemmeno io. Ci penserò, grazie.
Dentro al disco spesso c’è una specie di contrasto tra testo e melodie: mentre canti di piccole enormi tragedie ad accompagnarti è un suono vivace – penso ad “Iowa” o a “Presente”, ma ce ne sono anche altre costruite in questo modo. Tutto questo è voluto?
Mi fa piacere tu l’abbia notato. Sì in buona parte è voluto per le ragioni che ti dicevo sopra, trovo che il distacco sia ironico, almeno a me fa ridere vedere le cose in quel modo e spesso mi ha aiutato anche nella vita. Diciamo che mi piacciono i contrasti e amo quando qualcuno mi dice che pensava che io facessi una determinata cosa ma poi ha capito che in realtà sotto c’era altro, che le storie narrate erano in realtà abbastanza drammatiche e si sorprende. Ecco per me quello è uno dei momenti più belli che mi siano capitati, e per fortuna mi è successo più volte. Per me è un gran complimento. Io come ascoltatore amo scavare nelle opere che ascolto o guardo o leggo, pensarci e rifletterci su. La mia aspirazione è quella in realtà, che qualcuno a un certo punto si accorga di qualcosa che ha sempre avuto sotto il naso. Diciamo che amo molto il contrasto e la stratificazione. Poi il gioco è rischioso perché ci possono essere anche molte persone che decidono che non vale la pena scavare, ma è così in realtà che restano nascosti i tesori. Che poi questo sia un tesoro che ha valore solo per me è un altro conto. Sta prendendo una piega molto metaforica questa intervista. Scusami, è andata così. A livello di arrangiamento dei pezzi è stato fondamentale l’apporto di Luca Mazzieri che ha prodotto artisticamente il disco. Mi ha aiutato tantissimo a trovare un’identità e dare una veste ai pezzi, a dargli una certa unità e apertura, è uno dei miei artisti preferiti. Così anche Luca Lovisetto che l’ha mixato.
Un’altra cosa che mi incuriosisce è la durata delle canzoni: a parte “Woods”, tutte le altre stanno sotto i tre minuti. Non è che “Arto” è prima di tutto un disco punk?
Amo molto alcuni gruppi che sono definiti punk come attitudine, non so se io arrivo a tanto. Una cosa certa è che non mi pongo paletti nello scrivere i pezzi, di nessun tipo. Ad esempio per me in Iowa ci sono due strofe e due ritornelli, per me era un potenziale singolo e nella mia testa durava tre minuti, poi una volta completata mi sono accorto che durava un minuto e mezzo. Davvero la mia percezione era molto diversa. Per me il pezzo era finito, non avrei potuto e voluto aggiungere altro, quando è finito è finito. Diciamo che come attitudine mi piacerebbe molto, per me l’espressione è sempre stata più interessante della tecnica a livello musicale, l’istinto. Il rock and roll è anche una cosa che ti fa muovere i piedi, il corpo. Avere una certa urgenza di dire qualcosa, magari non sarà canonico o perfettamente rifinito ma dentro ha come incastonata un’emozione. Cercare di intrappolarla, tentare almeno. Due dei miei autori pop preferiti in assoluto ad esempio sono The Magnetic Fields e Daniel Johnston, ma anche tanti artisti provenienti dall’antifolk, anche Arthur Russell. Io li considero a mio modo punk. Poi per me il pezzo Presente è forse come estetica è il più “punk berlinese” (come il video che mi ha regalato Makkinoso) ma ha dentro anche uno slogan anti-punk che ironizza sul “No future”, è il mio “No present” praticamente. Diciamo che se per punk intendiamo i Ramones, posso dire che anche in Arto ci sono canzoni brevi, con pochi accordi e con il ritornello dentro. Mi piacerebbe un giorno arrivare a fare qualcosa di davvero punk, e non dico per forza qualcosa di musicale.
C’è una canzone che fa da architrave al disco? Voglio dire, c’è una canzone che lo tiene su, senza la quale “Arto” non sarebbe com’è o addirittura non esisterebbe? Se sì, qual è e perché lo è?
Di certo Stanza e Legno sono molto importanti e collegate, il primo e l’ultimo pezzo sono in effetti la cornice, il cerchio, che racchiude agli altri. Direi che la canzone che tiene su il disco sia Orizzonte per me. Forse la più fragile, la più esile di tutte. Ma è con quella che per me si arriva al viaggio che volevo fare, a quel vuoto in cui puoi pensare a quello che sta succedendo. E’ il momento in cui il disco si spezza, come dicevi tu. Tanto che dopo mi posso anche concedere il vero singolo del disco che per me è “Mi Mancavi”. E’ come un girone infernale Orizzonte, perché riaccade all’infinito, non per nulla è la traccia numero 8 che è un infinito verticale in fondo. Nel pezzo poi c’è ospite Glauco Salvo (Comaneci, Of rivers and trains,…) che è un artista che amo moltissimo, mi ha regalato delle parti bellissime di fields recordings e banjo. Inoltre Orizzonte per me è in effetti il proseguimento di Seppia che era un pezzo del disco precedente, fornisce anche una continuità. Diciamo che per me è un pezzo molto importante ma ogni parte è fondamentale per compiere il viaggio di Arto, sarebbe diverso togliendo qualcosa e tutto quello che c’è lo abbiamo fortemente voluto. Forse ho spiegato troppe cose. Vuoi mettere uno spoiler alert?
Immagina poter viaggiare nel tempo e di regalare le canzoni di “Arto” ad un regista per il suo film. Chi è il regista? Che film è? Che anno è?
Allora con il cinema ho un rapporto molto forte perché per anni ho lavorato nelle sale cinematografiche e tuttora collaboro con una sala d’essai di Modena, l’ultima monosala della città. La domanda è davvero molto bella, ci devo pensare. Ci sarebbero tanti film che hanno aspetti che amo, anche tanti registi a cui voglio bene perché con le loro opere mi hanno cambiato un po’ la vita. Ci penserò per almeno una settimana. Ma questo disco è anche un regalo che mi sono fatto e che mi hanno fatto tutti quelli che mi hanno aiutato. Diciamo che visto che sono su una macchina del tempo il regista sono io tra 15 anni che dirigo il film “Arto” e nel film ci sei anche tu e questa intervista. E il film poi non esce mai.