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L’ottavo album in studio di Marissa Nadler è semplicemente bellissimo. Questa però non è una novità: la cantautrice di Boston, Massachussetts è sinceramente tra le leve della sua generazione, la voce più autorevole e quella che ha in qualche maniera segnato la scena degli ultimi anni con il suo stile e la sua scrittura sensibile e intelligente. Difficile collocare in una scala gerarchica questo nuovo album, del resto preferisco considerare i suoi lavori come un progresso, ognuno il pezzo di un percorso di crescita sia sul piano personale che su quello artistico di una compositrice che scrive canzoni come concepire e disegnare opere d’arte astratta, frutto dei suoi studi e del conseguimento della laurea presso la Rhode Island School of Design, forma di espressione che qui combina per la prima volta direttamente ai suoi lavori con la copertina dell’album e la rappresentazione figurativa di ogni singola canzone incluse nelle release a edizione limitata oppure come “originali” per gli appassionati. C’è di più: raccolte le sue canzoni e la sua roba, Marissa se ne è andata nello studio del producer Lawrence Rothman (che ha qui lavorato in collaborazione con Justin Raisen, già producer di Angel Olsen, Kim Gordon, ecc.) e ha cominciato a definire il suo lavoro, raccogliendo intanto attorno a sé qualche pezzo da novanta come Angel Olsen e Kristin Kontrol (Dum Dum Girls), la batterista Patty Schemel (Hole), Sharon Van Etten (“I Can’t Listen To Gene Clark Anymore”), l’arpista Matty Lattimore (“Are You Really Gonna Move To The South”) e la polistrumentista Janel Leppin, la vera e propria “ombra” di Marissa Nadler per quello che riguarda gli arrangiamenti dell’album.
Disco che poi si chiama “For My Crimes” (Sacred Bones/Bella Union) e allora eccoci qui che parliamo di “murder ballads” secondo una revisione fatalista e drammatica, ma allo stesso tempo fiera, di una cantautrice americana senza quelle pose e esasperazioni alla Nick Cave, che si sono fatte comunque apprezzare negli anni, raccogliendo consensi a destra e a manca.
Qui del resto si punta forte sui contenuti più che sulle pose, le canzoni sono costruite su arpeggi di chitarra acustica e arrangiamenti d’archi e lap-steel guitars americana eredità della lezione Howe Gelb, chitarre blues fantasma Hugo Race e violini tipo Warren Ellis a bassa intensità. C’è una certa impronta Thrill Jockey che contamina sicuramente tutto il sound dell’album. Qua e là appare lo stile sofisticato di Josephine Foster (“I Can’t Listen To Gene Clark Anymore”, “Lover Release Me”) e il fatalismo Courtney Love, con profonde devozioni alla cultura gospel e – inevitabilmente – alla scrittura e alla figura di Leonard Cohen, che appare sostanzialmente omaggiato nell’intero album, ma in maniera più significativa con canzoni come la già menzionata “I Can’t Listen…”, “Are You Really Going…”, “All Out Of Catastrophes” (che rimanda anche al primo Bill Fay tipo “Pictures Of Adolf Again”).
Sarebbe comunque sbagliato pensare a un certo nichilismo oppure a espressioni “dark”. Sebbene “For My Crimes” sia un disco crepuscolare e ricco di chiaroscuro, le canzoni nel suo complesso sono un disegno di un certo quadro americana contemporaneo, lo stesso immaginario evocato da “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh, infatti Il personaggio del disco è la stessa Mildred Hayes interpretrata da Frances McDormand qui disegnata con tratti leggeri e tinte acquerello: un bellissimo quadro. Anzi “manifesto”.
VOTO: 85/100
Emiliano D’Aniello
29.09.2018