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Non mi meraviglierei che un giorno un signor matematico, deciso di sconfinare nella critica musicale, scriverà la seguente proporzione: più gente sul palco significa meno gente in sala. Poi arriverà un altro collega che aggiungerà, su un altro sistema parametrico, un secondo, quanto più insidioso, paradigma: a maggior raffinatezza del sistema linguistico musicale proposto sul palco, corrisponderà minor pubblico in sala. I due matematici avrebbero trovato una formula generalmente valida per determinare lo status quo del moderno successo. Il risultato di queste due formule è che è meglio far cose semplici ed essere da soli.
Come un eroe.
L’eroe è solo.
Lui porta dietro di sé la scia della verità e noi, che lo abbiamo seguito, sintonizziamo con le sue gesta. Anche nella musica la vicenda umana è un fatto importante. Non confondiamo: non il gossip morboso, non il sipario strappato sulla privacy di una celebrity e basta. È importante il fatto che la musica stessa restituisca a noi, poveri e anonimi utenti sociali, una parte cospicua e ipotizzabile dei pensieri intimi del tal cantante o della tal’altra popstar. Meglio ancora se il nostro eroe sia il veicolo di uno stile di vita, il catalizzatore di qualcosa che potremmo riutilizzare per corredare la nostra nudità, che ci dia un vestito attuale, qualcosa che faccia allacciare i recinti della comunità, che ci brandizzi e che arrivi a farci dire “io sono parte dire tutto”.
Oggi anche l’antagonismo vive meglio da insider che da outsider; il nostro “amico strano” è sempre più appassionato di cose scontate. Il processo storico in corso è un lento trascolorare verso l’abbandono delle velleità ideologiche. Grazie all’imbuto del mezzo informatico e alle opinioni innocue dell’eroe di turno, artista o opinionista che sia, tutto si polarizza di valori spiccioli e lineari. Inevitabilmente, dunque, non c’è più interesse per le manifestazioni collettivizzate o per le gruppaglie di assemblaggi politici post ideologici. Da soli, eroicamente, ci si fa carico di riflettere l’opinione degli individui, come una sola corda che va in simpatia per ragioni dinamiche misteriose. Mai vero come adesso è dire “tu sei come me”. Soli uguale a solo in compagnia.
Oggigiorno in arte non c’è né collettivo artistico, né anonimato pluralitario, né band, che regga il confronto con un solista o un provocatore rumoroso o uno scrittore autobiografico che scrive l’ennesima “based on true story”. Dell’orchestra risplende il direttore, del film il protagonista. L’MC dell’hip hop nostrano è talmente solo che spesso si presenta ai concerti con un computer di compagnia (come un cane), ma basta poco per riempire palazzetti e club a capienza massima. Stessa cosa per i canzonettari, o per l’ennesimo eroe classico romantico che esegue Schubert nell’auditorium cittadino.
La nostra nazione poi paga il pegno della fama di essere culla del “belcanto”; cos’altro è se non dunque l’apoteosi del solista, la gabbia d’oro dell’egomaniaco? La musica in Italia non è uno sport di squadra: è un lancio del martello. In quanto a notorietà Ottavio Dantone troneggia sull’Accademia Bizantina, la fama di Manuel impera sugli Afterhours e Calcutta batte Bella Venezia mille a uno. Chiusa la parentesi degli esempi vicini o lontani.
Contro, dunque, ogni interesse sociologico a noi qui piacerebbe fare una brevissima rassegna lampo di realtà musicali prioritariamente collettive. Badare bene: non assembramenti di persone che suonano sotto il diktat dell’anonimato. Figuriamoci! I caproni che stanno assieme, timbrano i cartellini, fanno “les moutons de panurge” (come direbbe Rzewski) li lasciamo ai porci. Qui ci interessano le perle, ci attirano le masse di personalità creative e brillanti, a dimostrazione del fascino che hanno (ancora?) le manifestazioni plurali in carne ed ossa (e non nel tratto irreale del sociale informatico). Riuscire a stare insieme è la più ardua impresa che c’è, e vincerla è segno inequivocabile di intelligenza. Lo spartito è di grande aiuto, ma noi confidiamo che un allenamento dell’ego sia alla base di ogni buona convivenza civile.
Ecco un esempio fulgido: la berlinese Andromeda Mega Express Orchestra, nata nel 2006 e con all’attivo concerti in contesti tra i più disparati. Si tratta senz’altro di una bella rivitalizzazione dell’idea di orchestra sinfonica tradizionale, dove lo zampino (o lo zappino?) di Zappa lascia traccia evidente.
Il termine ensemble è così spiegato sulla Treccani: complesso musicale in cui perde spicco la personalità di ciascuno degli esecutori perché risulti più perfetta l’armonia dell’insieme ed è affascinante che la parola sia rimasta in francese. Il motivo storico si perde nella notte dei tempi, ma indiscusso è la definizione di capacità nella concertazione collettiva, cosa che l’intera Francia ha dichiarato come proprio marchio di fabbrica dai tempi della Rivoluzione. Mentre noi italiani riusciamo, su questo tasto, a contraddirci pure nei proverbi: da un lato “chi fa da se fa per tre” e dall’altro “l’unione fa la forza”.
Una delle più belle manifestazioni d’ensemble che abbia mai avuto modo di sentire è il progetto della francese Eve Risser, pianista di area jazz nel senso più ampio del termine. Assieme alla White Desert Orchestra viene fuori un gramelot (parola francese anch’essa) di intenzioni apparentemente in contrasto tra loro; ma il risultato è di altissimo valore compositivo. Ècoute s’il te plait:
Forse sul piano squisitamente virtuosistico l’Ensemble Denada è quello che più impressiona al primo ascolto. Si tratta di una “miniature big band”, nata ad Oslo nel 2000 in quella lunga parabola che della Norvegia ha fatto una nuova inattesa culla del jazz glaciale di inizio millennio. La stessa Norvegia dei celeberrimi Jaga Jazzist (non si poteva non citarli) che mettiamo in questa piccola bacheca di fianco all’ensemble sopra citato.
Con garbo e disincanto l’ensemble olandese fondato ad Amsterdam nel 2009 e denominato Lunapark esegue splendide trascrizioni di brani di Aphex Twin. La veste interamente acustica stupisce in eleganza ed efficacia tanto da ampliare il concetto di trascrizione su carta a livelli “altri”. L’atteggiamento colto si fa, qui, fluido. Come la costellazione di tram nordeuropei sullo sfondo del video.
America, New York, Brooklyn, e dove sennò? Il musicista e compositore Simon Hanes dopo essersi diplomato al New England Conservatory ha adottato l’alias di “Luxardo” come arrangiatore, compositore, direttore d’orchestra e chitarrista, e ha messo in piedi una band “di proporzioni orchestrali epiche”. Così dice il curriculum su bandcamp a proposito del collettivo Tredici Bacci, pastrocchio lessicale (ops, voleva dire Thirteen Kiss, non è uno scherzo) con cui Hanes ha incanalato la sua profonda infatuazione per la colonna sonora degli anni Sessanta e Settanta italiani.
Una dichiarazione d’amore per la collettività all’opera come questa, non poteva concludere se non con un esempio personale.
La cosa che, di recente, più si è avvicinata nell’esperienza di 19’40’’ ad un ensemble espanso, coeso e complesso è stato senz’altro il tour di “Decade” della band italiana Calibro 35. Nell’estate 2018 il tour si è trasformato in “dirty decade”, e assoltati elementi degli Esecutori di Metallo su Carta il concerto è stato un florilegio di strumenti. Dieci persone sul palco (sei in più del normale organico) ma un solo suono. Ad esempio del fatto che per quanto in Italia sia fuori moda essere in tanti on stage, esperienze simili si possono ancora osare. Augurandoci che presto o tardi il potere torni al popolo. Se mai ce lo ha avuto.
(Tratto dal blog di 19’40’’: http://www.19m40s.com/blog/2018/9/26/breve-apologia-della-collettivit-on-stage)