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Joe Talbot è un uomo di parola: quando ai giornalisti dice che gli IDLES non sono un gruppo punk (nonostante sia ormai così che la sua band viene definita, e ho paura che il buon Joe si debba rassegnare a questa etichetta) dice in realtà una cosa vera: c’è qualcosa di più del semplice punk dietro a quelle ritmiche cadenzate e pesanti, a quelle chitarre che urlano e che stridono, a quel basso che ti entra nello stomaco. C’è qualcosa, nel loro sound, che sfugge da qualsiasi definizione di genere e che non credo possa essere espressa in termini musicali: si tratta di un’energia emotiva, di una passione, un calore e un’intensità che è in grado di trasmettere solo chi crede fermamente in ciò che fa, e che fa quel che fa perché non può fare a meno di essere autentico, di essere sé stesso. C’è un’attitudine alla spontaneità, negli IDLES, che non vedevo da anni nel mondo del rock alternativo e indipendente, quella cosa difficilissima da raggiungere artisticamente che è la sincerità.
Perché ecco: se dovessero davvero chiedermi di definire con una parola questa band, “sincerità” è quella che probabilmente userei. Ed è credo il complimento migliore che si possa rivolgere a chi fa musica non tanto per mostrare (non per forza in maniera narcisistica) le proprie capacità artistiche o per produrre qualcosa di bello o di sublime, ma per altre ragioni, altre esigenze, forse meno ambiziose ma sicuramente più concrete, più autentiche. L’idea che mi son fatto dopo questo live (ma che già avevo in mente da un po’) è che Talbot e soci non facciano musica con l’intento di produrre “opere d’arte”, ma per il puro piacere – che è prima di tutto un bisogno e un’esigenza emotiva ed espressiva – di trovarsi in situazioni e contesti in cui sia possibile qualcosa come una condivisione, uno stare insieme. Bastava guardarli a fine concerto, a parlare con i fans al banchetto del merchandising, a farsi le foto, a bersi una birra, a scambiarsi abbracci e risate.
Ok, mi sto dilungando troppo, e dovrei limitarmi a fare un live report del concerto. Il punto però è: come lo descrivi un concerto così? Io che peraltro ci sono arrivato in condizioni critiche, con alle spalle una notte letteralmente insonne e un’intera giornata di meeting e conferenze a lavoro, le occhiaie fino alle ascelle per la stanchezza, gli sbadigli di cui avevo ormai perso il conto… fino a quando eccoli sbucare sul palco. Parte “Colossus”, rallentata fino all’inverosimile e pesantissima, con Joe che canta di gola e con rabbia, sbattendosi i pugni sul petto. E poi ecco che parte il pogo, il contatto con i corpi, il calore, i sorrisi, gli abbracci, le braccia alzate verso il cielo per tirar su persone che anche se sono perfetti sconosciuti sono li insieme a te, sono nient’altro che estensioni del tuo corpo e del tuo sentire.
La resurrezione dei morti è possibile. Credetemi, perché l’ho provata!
L’inizio è al fulmicotone: “Mother”, “Danny Nedelko”, “I’m Scum”, in un ininterrotto pulsare di vita e di passione. La sala del Magnolia (impeccabile, come sempre, l’organizzazione e il service) si riempie di un unico e immenso sentimento di gioia, della pura affermazione di essere li, presenti, tutti insieme.
La scaletta procede senza sosta, con brani dell’ultimo disco alternati a quelli dell’esordio: “Never Fight a Man With A Perm”, “Love Song”, “Samaritans”, “Television”, per poi passare a “Well Done”, “Benzocaine”, “Faith in the City”…
Per celebrare l’unione mistica con il pubblico salgono due ragazze a suonare la chitarra, mentre la differenza fra il sopra e il sotto del palco si è ormai ridotta allo zero.
C’è anche spazio per le richieste, e qualcuno evoca persino brani degli EP degli esordi, come “Queens”…
Ma come vi dicevo all’inizio, Joe Talbot è un uomo di parola, così come i suoi compari: quando dice che è arrivato l’ultimo pezzo del set, è così. Qualcuno protesta, forse si aspettavano la sceneggiata ridicola delle superstar che dicono che è tutto finito e che fanno finta di andarsene solo per farsi applaudire e acclamare e pregare ancora un po’, come capita agli dei. Ma gli IDLES non sono divinità che si debbano pregare: sono esseri umani, per fortuna. Quando il concerto finisce, finisce veramente. E non c’è motivo di essere tristi o delusi, perché invece che rinchiudersi nel backstage li ritroviamo li al banchetto del merchandising, come dei perfetti esseri umani, a scambiarsi le foto con i fans, a farsi abbracciare e salutare, a offrire e farsi offrire delle birre, a scambiare due chiacchiere con tutti. Con sincerità, quella cosa che agli esseri umani, oggi, riesce sempre più difficile.
P.S. Una menzione speciale anche per il gruppo di apertura, i John: un duo chitarra e basso tutto energia e adrenalina, di cui sentiremo parlare molto molto presto, ne sono abbastanza certo.
(Gianpaolo Cherchi)