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Partiamo da una prima domanda: che cosa mi piace oggi in Italia?
E subito di slancio una seconda domanda: cosa ho visto di recente che mi piace oggi in Italia?
Domande, oggi (appunto), molto complesse.
Un’anno fa scrissi un brevissimo articolo per il Mucchio (grande dispiacere che abbia chiuso la versione cartacea); si chiamava “Sono diventato grande” e diceva di come “il popular musician che alberga nel mio cuore sa che il tempo per lui è quello concesso ad un calciatore”.
Inutile rimettermi a fare l’elenco dei nomi che già tirai in ballo allora, tra i tanti possibili (e quanti i dimenticati!). Chi ha voglia, tempo e pazienza rimando a questo link. Non mi rimangio assolutamente nulla, ovviamente.
Ma grazie al tour di “Decade” dei Calibro 35 di quest’anno ho potuto rientrare in carreggiata, facendo ripetizione di “scena attuale” e completando l’opera di ammodernamento nel settore specifico della popular music.
Come dice il caro amico Francesco, però, ci si deve arrendere al fatto che gli xennial (ovvero la generazione perfettamente a cavallo tra l’analogico e il digitale) sono dei device che non hanno più la ram per aggiornarsi. La differenza tra la gioventù predigitale e postdigitale non è semplicemente una questione di estetica e nemmeno di credo culturale, ma piuttosto (come dicono alcuni specialisti) un cambio darwiniano radicale. Gli strumenti di ascolto e di comprensione non possono prescindere dalla visione complessiva della comunicazione con cui un fatto sonoro ci arriva. Ormai l’orecchio senza la vista (un video, una foto, un’immagine dell’artista) non vive da solo. Il matrimonio dei sensi è forzato. E non era così fino a dieci o quindici anni fa, ovviamente, quando ancora l’artista giocava a nascondino con l’ascoltatore.
Purtroppo molte cose che ho ascoltato quest’anno hanno un’estetica talmente di merda che influisce pesantemente “sul cosa mi piace o no”. Richiedono una password sociale che non possiedo. Ad esempio (il solito esempio da anziano) la trap non parla a me: parla ai ragazzi che hanno subìto lo spauracchio della crisi 2008 e che ora hanno necessità di opulenza e leggerezza. Mi fanno ridere i miei coetanei, i quarantenni/cinquantenni che dicono “la trap è il nuovo punk”. Non è roba per noi. Punto e basta. A completamento del discorso, detesto la maggior parte dell’hip hop nostrano; a parte rarissime eccezioni, talmente rare da non averli trattenuti nella mente e non essere in grado di scriverle in questo articolo. Preferisco gli storici Mos Def, A Tribe Called Quest (visti al Pitchfork di Chicago: eccezzzzzziunali!), DJ Signify, Shabazz Palaces…E sugli attuali? Che dire: serve citare Childish Gambino/Donald Glover? Il grandissimo pregio dell’hip hop americana (che è come dire “il vero liscio romagnolo”) è che, personalmente, non capisco niente di quello che dicono. E così tutto torna ad essere musica. E, sinceramente, siam tutti più felici.
Il 1° maggio di Roma di quest’anno è stato un perfetto esempio della realtà attuale italiana. C’era tutto il kit di montaggio della scena contemporanea. Ci ho pensato molto, come ho pensato alla freddezza del pubblico verso i Calibro 35 a fine giornata prima di Fat Boy Slim: metti la stanchezza, la pioggia e (soprattutto) la quantità di vecchiaia sul palco che abbiamo offerto, con i nostri strumenti “suonati”, fiati, archi, tastiere, chitarre cose che a un adolescente medio oggi danno solo la sensazione di fatica mentale e tecnico-muscolare. Ci ho pensato talmente tanto che mi è venuto un naturale parallelo con la distribuzione parlamentare post marzo 2018: l’hip hop e la trap, con le dovute differenze, sono una specie di tritacarne oltranzista e checchè si pensi parli ai nuovi immigrati e alle realtà più povere della società, lo fa con mezzi talmente dispendiosi e talmente affettati da assomigliarmi tremendamente a certi atteggiamenti leghisti. Poi c’è il cosiddetto “indie pop”, quei nuovi strani paladini che ora sono nelle zone calde dei festival estivi al posto dei Verdena e dei Marta sui Tubi (penso, che ne so, a un Ermal Metal, a un Galeffi, a un Gazzelle), fino agli estremi che han compreso numeri degni da “Banana Republic De Gregori – Dalla”, quando a cantare un gelato a limon si riempivano le arene. Ecco, questi sono un po’ i Penta stellati, dove l’amore è al centro ma in un epoca, come dice Genna, dove si è completamente perso il simbolico. E dunque l’amore è l’amore, i soldi sono i soldi e i problemi degli operai sono i problemi degli operai. Sotto questi discorsi spiattellanti non c’è tema di confondersi. Ciò che resta, invece, del cantautorato, di coloro che fanno invece ampio uso del simbolico, ovvero della sottotraccia, del senso accennato, del sofisticato gioco di scambio con l’ascoltatore è po’ lo stesso che è restato del PD. Molecole.
Di tutte le altre forze politiche in gioco, non se ne ha più traccia. La scena strumentale post-metal-noise, un po’ una estrema sinistra (o estrema destra?) è in crisi, come tutto che è strumentale. Vanno di moda le parole, ora. A fiumi, a ettolitri, a chilogrammi, a cisterne (con quale peso è meglio misurarle?).
E, in questi grandi vuoti cosmici, capita che il pop sputtanato (questa sì, la vera destra), si metta a fare canzoni un pelo più engagé, come è capitato a Biagio Antonacci che fa un pezzo sui fratelli in crisi. A non saper che pesci pigliare, a volte si viene pigliati.