Share This Article
Partiamo dalle novità: jazz, avanguardia elettronica, nuove contaminazioni da aree geografiche un tempo periferiche, voci femminili che sfuggono alle barriere di genere. Non mancano due generi che hanno per certi aspetti definito l’anima “bipolare” di Kalporz negli ultimi anni: l’hip hop e l’indie. Dove il rap, nei dischi scelti tra i 20 più significativi del 2018, sembra farsi introspettivo e oscuro, le chitarre recuperano la rabbiosa espressività punk, forse in reazione a due dei momenti politicamente più difficili della recente storia statunitense e britannica.
20. BEN LAMAR GAY, “Downtown Castles Can Never Block the Sun”
(International Anthem Recording Company)
Ben Lamar Gay, parte integrante della scena jazz e prog-jazz di Chicago e collaboratore – nel corso degli anni – di Theaster Gates, Nicole Mitchell, Mike Reed, Matthew Lux’s Communication Arts Quartet, Joshua Abrams Natural Information Society, Bitchin Bajas e tanti altri, fino ad oggi non aveva mai pubblicato un album da solista, “Downtown Castles Can Never Block The Su” è il suo primo disco vero e proprio, anche se potrebbe essere definito un “best of” degli ultimi sette anni e di sette “ipotetici dischi” del musicista americano. Questo “esordio”, risultato di anni di ricerca sonora, è quindi un quadro dalle mille sfumature e colori, da una spiritualità jazz a un’anima elettronica.
19. THE GOOD, THE BAD & THE QUEEN, “Merrie Land”
(Studio 13)
“If you’re leaving please still say goodbye?”: “Merrie Land” è una terra di addii, di luoghi e persone perdute. È la Brexit certo ma è anche la dipartita di persone care, una terra dove prendere atto e riconciliarsi perchè tanto la vita è un cerchio. O, meglio, è un circo, e la metafora del circo è onnipresente nella seconda prova (inaspettata) del super-combo inglese. Sotto la direzione superba di Albarn i TGTBATQ ci restituiscono una fotografia lucida dei nostri tempi e di un sentimento diffuso tra chi, per mille ragioni, è un po’ reduce.
18. ROSALÍA, “El Mal Querer”
(Sony)
La musica latina riesce a scardinare decenni di pregiudizi di chi è cresciuto con una fiera cultura musicale anglo-sassone (bianca o black che sia). L’ammaliante voce della venticinquenne catalana ha attualizzato con risultati sorprendenti ed emozionanti la tradizione flamenco in un R&B fresco e contemporaneo. Un disco di mezzora in undici tracce e undici capitoli ispirati a “Flamenca”, romanzo occitano del 1200 che racconta la storia di una donna rinchiusa in una torre dal suo amante.
17. PUCE MARY, “The Drought”
(P A N)
La ventinovenne artista noise/industrial danese Frederikke Hoffmeier aka Amphetamine Logic aka Puce Mary è cresciuta nella scena underground di Copenhagen che ruota attorno alla label fondata da Loke Rahbek e Christain Stadsgaard (il giro è quello di Iceage, Puce Mary, Croation Amor, Lower e Lust For Youth) e si è fatta conoscere in tutto il mondo grazie alle sue performance molto intense e a loro modo estreme.
Il nuovo album, uscito per l’influente P A N, la label elettronica berlinese di Bill Kouligas è ispirato all’immaginario letterario di Charles Baudelaire e Jean Genet e manifesta, nelle parole di Frederikke, “il costante conflitto dell’uomo verso la propria propria conservazione”. Il risultato è un’angosciante concept industrial-noise senza momenti di sollievo o speranza.
16. KHRUANGBIN, “Con Todo El Mundo”
(Polydor Records)
Il trio strumentale di Houston formato da Laura Lee, Mark Speer e Donald Ray “DJ” Johnson Jr., dai deserti del Texas trascende e trasporta la sua proposta musicale in una dimensione altra, dove non esistono più confini, epoche e generi. Non solo rock psichedelico, insomma. “Con Todo El Mundo”, a partire dal titolo ci trascina verso paesaggi inesplorati di funky, world music, dub, musica indiana, motivi mediorientali e molto altro ancora.
15. JON HOPKINS, “Singularity”
(Domino)
Jon Hopkins riesce a condensare i momenti di ‘vuoto’ e di ‘pieno’, ‘lento’ e ‘veloce’, ‘melodia’ e ‘rumore’ in un fluire ininterrotto di musica psichedelica nel suo significato di ‘immaginifico’. “Singularity” è un disco che crea. Ogni elemento, pure i vari inserti da dancefloor che pure compaiono in maniera prepotente all’inizio e in chiusura di disco, è pratico alla creazione di un percorso d’ascolto, di sensazioni funzionali ad un viaggio fisico ed emozionale in cui Hopkins vuole portare il fruitore del disco.
14. NILS FRAHM, “All Melody”
(Erased Tapes)
Le voci umane si mescolano nel corso di quest’ora e un quarto con strumenti che le mimano, dialogano con loro (le trombe di “Human Range”), per raccogliersi in un momento di solenne e quasi catartica chiusura in “Momentum” e “Kaleidoscope”. Le tracce centrali, “Forever Changeless” e per l’appunto “All Melody”, racchiudono la doppia anima del suo autore: nella prima, il soffio neoclassico, le origini e in qualche modo il confortevole ritorno al rifugio familiare, il pianoforte (con costanti echi del miglior Max Richter); dall’altro, uno sguardo al contemporaneo, la sperimentazione acustica, l’organo registrato e sintetizzato, come un percorso naturale, senza picchi né clamori.
13. YVES TUMOR, “Safe In The Hands Of Love”
(Warp)
Ascoltare per la prima volta “Noid” ha fatto lo stesso effetto di quando ascolti un artista su Spotify e alla fine dell’album parte un artista simile che in realtà poco o nulla ha a che fare con quello che stavi ascoltando. Con la differenza che in questo caso l’effetto sorpresa è tutt’altro che sgradevole. E invece di skippare te la godi fino alla fine anche se t’aspettavi tutto fuorché un brano che sembrerebbe ripescato da una traccia dei mitici The Avalanches
Se dovessimo usare la parola indie con lo stesso significato onnicomprensivo di qualche anno fa quando racchiudeva produzioni dream-pop, l’alt-rock dei 90, il noise, l’elettronica meno ostica e i rigurgiti synth-pop degli 80 e chissà cos’altro, potremmo dire che il disco “indie” più interessante dell’anno è stato partorito da un artista e performer techno che avevamo imparato a conoscere con due album molto visionari ed elusivi, usciti su P A N.
12. KALI UCHIS, “Isolation”
(Virgin Emi)
L’anima pop degli Stati Uniti è sempre meno bianca in senso tradizionale e con Kali Uchis ha una fiera anima ispanica. Poche artiste come la giovane di origini colombiane può vantare a soli venticinque anni una serie di collaboratori e fan illustri come Tyler, The Creator (“After The Storm” è uno dei pezzi più belli dell’anno), Kevin Parker dei Tame Impala (guest in “Tomorrow”), il bassista e producer amico di Kendrick Lamar, Thundercat (presente in “Body Language (intro)”), Damon Albarn dei Blur e i suoi Gorillaz in “In My Dreams”, Steve Lacy di The Internet in “Just A Stranger” e ancora Dave Sitek dei Tv On The Radio, Jorja Smith in “Tyrant” e la rapper BIA nella traccia Miami. Tra raffinati momenti jazzy e conturbanti melodie soul/R&B dal retrogusto latino, echi caraibici rivisitati in chiave urban-funk, è uno dei dischi pop più eleganti e riusciti dell’anno.
11. SOPHIE, “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides”
(Transgressive Records)
L’apice pop è un’esasperazione dell’idea stessa di pop song. Nei quattro minuti di “Immaterial” (ideale ponte con la “Material Girl” di Madonna) batte il cuore di “plastica non più plastica” di questo disco. Paradossalmente, il coraggio di questa release risiede ancor più qui che nei suoi momenti più astratti. La compiutezza vera che va riconosciuta a SOPHIE è nel saper far digerire quaranta minuti di suoni tattili, di flussi e di non-battiti come se fosse la cosa più pop di quest’anno. E in profondità lo è
10. EARL SWEATSHIRT, “Some Rap Songs”
(Tan Cressida / Columbia)
A livello compositivo, “Some Rap Songs”, è un avvolgente flusso di coscienza di ventiquattro minuti in quindici tracce molto brevi, ma fulminanti, come ci ha abituato Earl.
Tra campioni soul d’annata singhiozzanti e destrutturati e tappeti molto lo-fi che oltre al maestro J Dilla ci fanno accostare il ventiquattrenne (ricordiamolo, ha solo ventiquattro anni) ai grandi classici di Madlib e del suo celebratissimo progetto collaborativo con MF Doom, Madvillain, già al secondo ascolto si ha subito l’idea di avere davanti un capolavoro.
9. TIRZAH, “Devotion”
(Domino)
Undici canzoni d’amore di cui vi accorgerete di sentire il bisogno: dentro a “Devotion” c’è tutto quello che serve per non sentirsi soli. Un racconto puro e schietto di tutte quelle variegate sfumature ad intensità variabile che sono le emozioni e gli affetti delle persone, di cui Tirzah è autrice e interprete in maniera educata ed elegante. A spalleggiarla è la producer e amica Mica Levi aka Micachu, che confeziona per le strofe delle canzoni di “Devotion” un pattern di suoni morbidi e luminosi, minimali, mai ingombranti.
Tutto il delicato ecosistema sentimentale espresso in versi di Tirzah si appoggia infatti su soffici tappeti di melodie decostruite e ripetute in loop dal sapore rotondo e accogliente, un po’ come a dire che se si vuole parlare di fragilità e insicurezze almeno lo si faccia in un luogo protetto, in cui la ripetizione diventa refrain e rassicurazione – viene in mente per esempio Arthur Russell nelle sue canzoni sulla sfiga, sull’amore, sulla perdita, sulle combinazioni selvagge.
8. PARQUET COURTS, “Wide Awake!”
(Rough Trade)
Sei dischi in sette anni e un sound diventato ormai inconfondibile. Non senza nuovi scenari, sempre nostalgici della lunghissima tradizione post-punk, quella che idealmente inizialmente inizia prima del post-punk e del punk, ma ne anticipa le suggestioni (Velvet Underground) e quella che sconfina in altro, dall’approccio artsy del post-hardcore di Fugazi e Minutemen, fino a sconfinare nell’indie di scuola Pavement. I Parquet Courts sono la summa di tutto ciò con cui è cresciuto chi ha sempre dato un significato alto alla parola indie.
7. ICEAGE, “Beyondless”
(4AD)
Non so se un disco come “Beyondless” sarà l’ultimo funerale ben riuscito del rock, spero solo che Rønnenfelt continui a indossare i panni dell’araba fenice che allo stesso tempo brucia, uccide e fa rinascere il punk.
6. BLOOD ORANGE, “Negro Swan”
(Domino)
Ci sono le consuete buone dosi di Prince, di quell’80’s pop che pochi sanno maneggiare come Hynes ma anche di tanto r’n’b e soul contemporanei. Per dirla un po’ male, c’è un po’ meno Janet Jackson e più Frank Ocean, forse. E naturalmente c’è il solito pool di collaboratori di lunga data a dar coerenza: ci sono i fiati onnipresenti di Jason Arce e le apparizioni di Adam Bainbridge (che poi sarebbe Kindness) e di Aaron Maine (che poi sarebbe Porches). Per certi versi è quasi una scena quella che ruota attorno a Blood Orange. Punti cardinali del sottobosco di un pop moderno. Convince pienamente il funk digitale rallentato di “Out Of Your League” con Steve Lacy del collettivo The Internet
5. PUSHA T, “Daytona”
(G.O.O.D. Music / Def Jam Recordings)
Il più riuscito dei cinque album da sette brani venuti fuori dalle Wyoming Session di Kanye West è il disco del presidente della label di un Kanye mai così discusso e controverso per motivi extra-musicali e mai così ispirato a livello di produzione. Le sette tracce di Daytona, tutte prodotte da Kanye, esaltano il flow straripante dell’ex Clipse. Non ci sono tracce di trap, è un disco rap come non se ne sentono più da un po’. Pusha T è sempre più King Push.
4. AMEN DUNES, “Freedom”
(Sacred Bones)
“Freedom” è il disco che segna una maturata fase di libertà, di uomo e di artista. È il racconto di storie e questioni personali trasformate in canzoni con lo scopo di liberarsene definitivamente, come una specie di esorcismo. Ed è anche il segno di una nuova vitalità musicale, il compimento di una fase esplorativa e concettuale, che vede nell’apertura a nuovi suoni e influenze la forza della spinta creativa.
3. SPIRITUALIZED, “And Nothing Hurt”
(Fat Possum Records)
Consiglio solo di abbandonarvi a cotanta bellezza; sarà un viaggio per voi senza ritorno, vi ricongiungerete ancora una volta con il rock, lo regalerete ai parenti e agli amici, direte di aver trovato il gruppo della vostra vita, vi innamorerete, rimarrete chiusi nelle vostre camerette a piangere le storie d’amore finite ma al contempo i 5 minuti di “Damaged” vi faranno risollevare la testa e le lacrime saranno solo di gioia
2. OBJEKT, “Cocoon Crush”
(P A N)
L’aria è sempre piuttosto pesante e malsana e Objekt da osservatore androide accoglie nei suoi scenari elementi più vividi e naturali in tracce che restano introspettive e a loro modo sembrano emerse da panorami aridi e desolanti. Lui parla di approccio organico, ma permangono sinistri sensi di vuoto e quell’approccio tra abstract e IDM in grado di spiazzare, emozionare e alienare.
1. IDLES, “Joy As An Act Of Resistance”
(Partisan Records)
I periodi di crisi sono periodi di fermento e di opportunità, momenti in cui si esprimono nuovi bisogni, e in cui si dà voce a nuove e crescenti esigenze. Devono saperlo bene in Inghilterra, un paese che nel bel mezzo del fenomeno Brexit sta vivendo un momento di vivacità culturale che fatica a trovare altrettanti riscontri nel resto d’Europa. Vivacità che si nota anche e soprattutto se si dà uno sguardo alla scena musicale d’oltremanica, in grado di far emergere progetti tutti accomunati da una forte attenzione per i temi sociali, per il ritorno della cultura nazionalista e per le derive fascistoidi che stanno attraversando il Vecchio Continente e che hanno investito il Regno Unito.
—
KALPORZ AWARDS HISTORY (ex Musikàl Awards):
Kalporz Awards 2017 (Kendrick Lamar)
Kalporz Awards 2016 (David Bowie)
Kalporz Awards 2015 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2014 (The War On Drugs)
Kalporz Awards 2013 (Kurt Vile)
Kalporz Awards 2012 (Tame Impala)
Kalporz Awards 2011 (Fleet Foxes)
Kalporz Awards 2010 (Arcade Fire)
Kalporz Awards 2009 (The Flaming Lips)
Kalporz Awards 2008 (Portishead)
Kalporz Awards 2007 (Radiohead)
Kalporz Awards 2006 (The Lemonheads)
Kalporz Awards 2005 (Low)
Kalporz Awards 2004 (Blonde Redhead, Divine Comedy, Franz Ferdinand, Wilco)
Kalporz Awards 2003 (Radiohead)
Kalporz Awards 2002 (Oneida)
Kalporz Awards 2001 (Ed Harcourt)