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Se io fossi Rob Brezsny, dopo alcune citazioni a caso prese da Wikipedia e travestite da consigli di vita, chiuderei l’oroscopo con un compito per la settimana da assegnare a tutti i segni: recuperare per amor proprio Thin Walls dei Balthazar, un bellissimo disco del 2015 che ha avuto l’unico difetto di essere stato scritto da una band di Gent, Belgio e non di Londra o New York. Per questo motivo non se n’è sentito parlare granché dalle nostre parti e, mentre in giro per l’Europa i Balthazar riempivano palazzetti e partecipavano a festival importanti, nelle date italiane c’erano venti persone a concerto, probabilmente finite lì per usare il bagno del locale. Quell’album era pieno di pezzi pop che funzionavano a meraviglia nonostante si basassero su una produzione semplice e mirata, fatta di tanti spazi vuoti e pochi suoni inaspettati che si intersecano (un basso, un violino, belle intuizioni vocali) grazie all’abilità di scrittura dei due cantautori e frontman Jinte Deprez e Maarten Devoldere e la produzione di Ben Hiller, già dietro ai lavori di Blur e Depeche Mode. Un indie pop fortemente europeo, cioè più lontano da alcune robe plasticose come i Mumford and Sons ed accostabile invece ai loro compaesani dEUS ed i cantautori vecchio stampo come Serge Gainsbourg, modello a cui Devoldere ha dichiarato di ispirarsi, nonostante poi il suono dei dischi dei Balthazar si sia sempre tradotto in qualcosa di assolutamente contemporaneo. E poi è uno di quei gruppi in cui l’uso del violino ha un senso logico, e non è poco.
Il 2019 dei belga è iniziato con un nuovo lavoro, Fever, quarto album via Play It Again Sam, che riparte da dove i Balthazar ci avevano lasciato quattro anni fa: poca produzione e sovrastrutture, canzoni basso-centriche (come giusto che sia, quando si hanno certe linee così ben fatte, bravo Simon Casier) e un’atmosfera sensuale ed elegantemente marpiona. C’è forse più allegria rispetto a Thin Walls, sarà che hanno già spurgato a dovere il mood dark nei progetti solisti che i due frontman hanno creato in questo periodo di pausa, come gli Warhaus, ma i pezzi non mancano belli e scazzati, sui quali primeggia il singolo I’m Never Gonna Let You Down Again. Per sottolineare l’aumento di positività e spensieratezza del disco rispetto al passato nelle testate giornalistiche europee di settore si parla di un disco quasi funk: effettivamente Fever e Wrong Faces potrebbero averle scritte i Jungle durante una gita in campagna, mentre Grapefruit non aspetta altro che essere remixata da un producer house. Non è chiaro se il sound di quest’album sia un’evoluzione rispetto ai tre lavori precedenti, ma di sicuro è un altro bel pretesto per andarsi a recuperare (e vedere dal vivo) una band che finora ha avuto meno considerazione di quel che si merita.
75/100
(Stefano D. Ottavio)