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Alla fine del tour di “Are We There“ Sharon sparì. Sparì dai palchi e dagli studi di registrazione, voleva fare altro, provare altre strade. In questi ultimi anni l’abbiamo vista attrice in The OA (una serie di Netflix), studentessa e madre. Poi la musica è tornata. Nel 2016 aveva composto con Michael Cera la colonna sonora di Strange Weather alternandosi a synth e chitarra, ma era stato solo un episodio, quel mondo non sembrava più interessarla così tanto.
Per sua ammissione aveva scritto – nei ritagli di tempo che l’essere madre le permetteva – qualcosa come quaranta canzoni, senza che nessuno sapesse nulla. Ci è voluto il compagno ad incoraggiarla a tornare ad incidere di nuovo, dandole quella scintilla per trovare la spinta e il coraggio per tornare in studio.
Per Sharon è il quinto album prodotto da John Congleton ( St. Vincent, the Roots/Erykah Badu, Swans, War on Drugs e Mountain Goats) e non me ne vogliano i fan che ne preferiscono il lato folk ma questa nuova vita artistica non poteva cominciare in modo meno discontinuo. Ci sono brani pieni di voglia di riscoprirsi e si ritrova la vena nostalgica, ma quello che c’è dietro è ben diverso.
La cantante nata nel New Jersey ama New York e ha voluto portare questo suo sentimento nelle sue canzoni (e nel video vedi quello del singolo “Seventeen” qui sotto), delle vere e proprie lettere d’amore alla città che la ospita ormai da quindici anni. Niente di esplicito tutto riporta in quei luoghi, nella Brooklyn che l’ha accolta e che l’ha fatta crescere e diventare madre: i testi, interpretabili a vari livelli, sono più che mai diretti all’oggi, al rapporto con il partner, come in “I Told You Everything”, o al pensare al proprio rapporto a lungo termine senza perdere se stessi, come in “Malibu”.
I suoni più corposi e il fitto uso di drum machine e synth rende il suono cupo e gotico di “Memorial Day” uno dei pezzi più multistrato del lavoro: diverse voci si sovrappongono per rendere più macabro l’effetto del messaggio (“Hey, you will stay, you will learn or you will good again/Will you ever hold your ground/Will I ever pull your teeth?/If you barely stand/How do I let you leave?”) che nasconde molta acredine rispetto alle esperienze passate.
Di contro “Comeback Kid” è molto tirata , quasi spensierata, e fa da contrasto alla emozionante “Jupiter 4” (dal nome del synth usato) che esalta la sua inconfondibile voce (“Baby, baby, baby / I’ve been searching for you”). La springsteeniana “Seventeen” ridà fiato al suono del disco che con “No One’s Easy To Love” e “You Shadow” (liricamente l’apice dell’album) e la conclusiva “Stay” fanno da ponte tra il nuovo e il vecchio corso che la cantante sta cercando di intraprendere.
Non siamo davanti al nuovo “Are We There“, per certi versi irripetibile, ma “Remind Me Tomorrow“ è un coraggioso e come sempre emozionante ponte verso un’evoluzione che aveva bisogno di manifestarsi. E per fortuna lo ha fatto.
85/100
(Raffaele Concollato)