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Il 2009 è stato un secolo fa. In ambito musicale più che altrove. Nella classifica di fine anno redatta da Kalporz trionfavano i Flaming Lips seguiti dal fenomeno post-emo e neo-wave degli Horrors, in quella di Pitchfork trovavano posto gli esordi di XX, Pains of Being Pure at Heart e Real Estate. In fondo le classifiche di fine anno servono a questo, a ricordare cosa si ascoltava in un certo periodo e a misurare la distanza: più lavoro d’archivio che nostalgia.
“Merriweather Post Pavillion” degli Animal Collective esce a inizio 2009 e diventa per molti uno degli album, forse l’album, più riuscito e significativo del periodo. In formazione come sempre rimaneggiata considerata la natura del progetto, qui l’assenza è di Deakin, il collettivo presenta un’opera complessa ma leggera, meno tribalismi e chitarre, più armonie vocali e melodie. È l’erede legittimo di “Person Pitch”, uscito due anni prima, capolavoro della produzione solista di Panda Bear, anima wilsoniana del gruppo. Un lavoro che si colloca al centro di un campo vario ma chiaramente definito: da una parte una nebulosa elettronica e un po’ nerd tra musica da videogiochi anni ’80 e pop onirico, quella che verrà poi variamente battezzata hypnagogic pop o chillwave, dall’altra una psichedelia ancora strutturalmente rock ma filtrata da suoni prevalentemente digitali. Nei due anni successivi, anche a causa degli Animal Collective, si parlerà molto di queste “scene”, da Neon Indian a Washed Out, mentre “Halcyon Digest” dei Deerhunter, operazione simile su diverse basi, uscirà nel settembre 2010. “Merryweather Post Pavillion” rappresenta la consacrazione di questo ambiente, il punto di riferimento riconosciuto anche al di fuori del campo di appartenenza.
Visto oggi è la fine di qualcosa piuttosto che l’inizio, anche se è possibile che lo sguardo a distanza non sia più perspicuo delle prime impressioni. Salta però all’occhio come nello stesso periodo si stiano ponendo le basi per l’oggi, “House of Baloons” di The Weeknd esce nel marzo 2011.
Insomma dopo dieci anni l’ascolto lascia l’impressione di un album modernissimo, equilibrato e maturo ma certo avanguardistico, e tuttavia radicalmente distante, separato da noi, oggi. Precursore di quasi nulla. Quella musica non si fa più, varrebbe la pena di chiedersi il perché.
Una prima risposta, forse telefonata, è che al fondo si tratta ancora di rock. Quanto a riferimenti, nell’ispirazione originaria, per le linee di forza che lo attraversano, il quinto album a nome Animal Collective percorre un tracciato conosciuto, la fusione di coordinate rock e sonorità elettroniche di ascendenza varia che, a partire dai Radiohead della svolta di inizio Duemila, ma anche dei Primal Scream di quella fase e altri, percorre tutti gli anni cosiddetti Zero.
La seconda, più evidente sulla superficie emersa dell’album, attiene alla sua natura surf e psichedelica, all’immaginario di cui si nutrono i membri della band. Alla particolare nostalgia di quel periodo, su cui si è scritto molto, che ne connota non solo gli episodi più schiettamente derivativi ma attraversa pienamente le sue avanguardie.
La terza, in forma di ipotesi, è che “Merriweather Post Pavillion” esprima molto bene una poetica del disimpegno, prima di tutto esistenziale, e del sogno di un altro mondo. Una poetica radicata nella belle epoque economico-politica degli ’90 e duemila, che in musica ha trovato compimento soprattutto nel secondo dei due decenni, una volta superate le asprezze ancora derivanti dall’etica post-punk. L’equilibrio dalla forma espressiva degli Animal Collective appare in ultima analisi questo: la maturazione di un sogno vigile, una trascendenza senza conflitti tipicamente psichedelica.
Tutti caratteri e motivi che sono venuti meno, non solo sul piano del suono. Oggi per molti aspetti, anche nelle sue versioni “di cassetta”, si ascolta una musica dura, che cerca una rappresentazione il più possibile diretta del vissuto e sogna molto poco. Una musica che rappresenta questo mondo e non un altro.