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Un viaggio nel mondo spaziale della Habibi Funk Records, la label secondaria di Jannis Sturz e Malte Kraus della Jakarta Records di Berlino/Colonia e dedicata alla musica africana e nella specie a quella proveniente dal mondo arabo e delle coste del Mediterraneo (Egitto, Marocco, Tunisia…): ecco qui le nove (finora) pubblicazioni del progetto.
DALTON, “Alech” (Vol. 1, 2015)
La prima pubblicazione è un singolo di questo gruppo tunisino, i Dalton, formatisi a Tunisi nella capitale del paese nordafricano alla fine degli anni sessanta. Composto da cinque componenti, l’ensemble si formò nel circolo degli studenti dell’Università della città e fu particolarmente attivo fino all’inizio degli anni settanta suonando regolarmente nei resort lungo la costa del Mediterraneo. Curiosamente questo dischetto ha una connessione molto stretta con il nostro paese: le due canzoni infatti furono registrate proprio a Roma, dove il gruppo viaggiò tra il 1971 e il 1972. Assolutamente irreperibile, il dischetto è stato recuperato grazie al frontman e chitarrista Faouzi Chekili, particolarmente attivo sul web e contattato direttamente dalla label. Solo due pezzi, l’afro-beat e funky “Alech”, la title-track, che ci mostra la potenza della sezione ritmica e dei fiati, il groove tipico e l’avvolgente melodia vocale in lingua araba e qualche reminiscenza di quell’internazionalismo Dur-Dur Band. Differenti le sfumature del secondo pezzo, “Soul Brother”, in bilico tra i notturni romantici Marvin Gaye e forme di reggae afro orecchiabili. Più convincenti nella prima versione, il gruppo dopo quella fase si sciolse e ebbe un “reprise” alla fine degli anni settanta come Carthago. Roba di altri tempi, sicuramente vintage, quando nei “resort” del continente si suonava anche musica afro invece che surrogati di standard occidentali.
FADOUL, “Al Zman Saib” (Vol. 2, 2015)
La specialità del progetto Habibi Funk è quello di recuperare registrazioni di musica “afro” proveniente prevalentemente dal mondo arabo. La pubblicazione di questo bellissimo disco di rock and roll con sfumature funky e quel rhythm and blues tipico James Brown, nasce nel 2012: Jannis Sturtz e a Rabat in Marocco come tour manager del ghanese Samuel Bazawule aka Blitz The Ambassador. Dopo la fine del Mawazine Festival, si trattiene nel paese e viaggia fino a Casablanca, la capitale della musica marocchina negli anni sessanta-settanta e qui si imbatte nel sound di Fadoul, rocker deceduto a Casablanca nel 1991 all’età di cinquant’anni. Ci sono voluti comunque un paio d’anni per recuperare più informazioni su questo artisti e alla fine nel 2015 è stata pubblicata questa compilation, “Al Zman Saib”, che è praticamente un album incredibile. I pezzi, che risalgono tutti agli anni settanta, sono una irresistibile collezione di rock and roll su cui spicca la voce e la interpretrazione di Fadoul, che riprende lo stile proprio di James Brown (presente anche una cover di “Papa got a brand new bag”, ovviamente cantata in lingua araba) e il primo rock and roll nello stile Made In USA e che aveva praticamente poi visto la sua esplosione nel nostro continente con gli Stones e il lavoro di studio nel sound fatto da Brian Jones con Keef e Mick Jagger. Il suono acido delle chitarre rimanda persino a episodi tipo MC5 e Blue Cheer, lo stile è ossessivo, paranoico, a tratti riprende quello che sarà uno stile più virtuoso tipico della fine degli anni settanta, il sound del basso è potente e vigoroso. Va menzionato l’uso delle voci e una intro sperimentale quasi progressive sul brano “Maktoub Lah”, che accennano a intuizioni più ardite qui non sviluppate, ma penso che il risultato finale sia già qualche cosa di fantastico e che in fondo non ci fosse e non ci sia bisogno di aggiunte.
AMHED MALEK, “Musique Originale De Films” (Vol. 3, 2016)
Amhed Malek è nato il 6 marzo 1932 a Bordj El Kiffan, Algeri. La sua storia ha dell’incredibile: dopo aver perso la madre in giovane età, cominciò a lavorare in fabbrica con il padre sin da bambino. Questo non gli impedì però di coltivare il suo sogno: diventare un musicista. Riuscì a diplomarsi al conservatorio e piano piano si affermò come uno dei compositori più rappresentativi del suo paese e in particolare per quello che riguarda colonne sonore e il mondo del cinema e della televisione. Direttore d’orchestra della “Algerian Television Orchestra”, ha scritto musiche per dozzine di film, spettacoli telesivi e documentari fino alla fine degli anni novanta, quando la sua salute (è deceduto nel 2008) gli ha impedito di continuare nell’attività. Questa pubblicazione è in buona sostanza una collezione di tracce registrate da Malek nel corso degli anni: un lavoro facilitato dalla collaborazione della figlia di Malek, Henya (una delle tracce dell’album porta il suo nome), e che ha portato allaa raccolta di 14 temi (tra cui due inediti) di musica per il cinema caratterizzata per lo più da un certo drammatismo da cinema neo-realista e francese (influenza inevitabile data la location geografica) ma chiaramente condizionata pure da suoni tipici del Mediterraneo e del nord-africa. Interessanti i rimandi negli arrangiamenti orchestrali al cinema nostrano, penso all’immaginario “spaghetti” e colonne sonore funky degli anni settanta, che portano a momenti di grande epica e trionfalismo in un complesso per lo più di standard jazzati e da orchestra classica. Poi qua e là spuntano vere e proprie sorprese: immaginari sudamericani (“La Ville”), afro-beat, sinfonie tropicaliste a bassa intensità e bolero e per quello che riguarda i due inediti, per quanto l’album sia interamente strumentale, rimandi alla musica francese tipo Brel oppure Brassens negli arrangiamenti di chitarre (penso per l’Italia a roba tipo il compositore Gianni Marchetti, storico partner ad esempio di Piero Ciampi). In definitiva lo considerei molto raffinato, una musica da sottofondo adatta ad ogni momento, ricercato.
CARTHAGO, “Alech” (Vol. 4, 2016)
La pubblicazione del singolo “Alech” dei Dalton è stato il debutto del progetto Habibi Funk. Nel lavoro di ricerca delle fonti, l’incontro con il frontman della band, Fawzi Chekili, è stata occasione particolarmente proficua. Il quarto “capitolo” della serie è in effetti una propagine di quella pubblicazione, perché i Carthago sono un altro progetto dello stesso Chekili, inaugurato alla fine degli anni settanta dalla fusione tra i Dalton e i Marhaba Band. Anche in questo caso il gruppo si esibì per lo più lungo le coste tunisine e in particolare nei night di Tunisi e Sousse, ma così come cambiava il mondo della musica in quegli anni, allo stesso modo si evolveva il sound funky e jazz della scena del paese. L’ispirazione Stevie Wonder, che era diventato una specie di “must” nel genere più commerciale, si fa sentire negli arrangiamenti della stessa “Alech” e nella seconda traccia “Hanen”: il sound è contaminato da evidenti influenze fusion. Il sound è più accattivante, più sincopato e decisamente orecchiabile rispetto a quello dell’epoca Dalton e spuntano così le due versioni disco delle tracce, aggiunte alle “originali” e che con un gusto vintage e evoluzione di quella esperienza che intanto si cominciava a diffondere in tutto il mondo del sound “makossa”, suonano tanto patinate quanto ancora oggi ricche di groove: chitarre e percussioni si sviluppano con ritmi frenetici e il tipico groove del basso domina imperioso rendendo il sound irresistibile. Semplicemente spettacolari le dimensioni lounge del “reprise” di “Hanen” e che fanno pensare al nostrano Alan Sorrenti nelle sue versioni più accattivanti e in fondo più popolari e meglio riuscite (quelle che lo hanno reso indimenticabile nella storia della musica del nostro paese in pratica e con buona pace dei puristi del sound progressive). Peccato le tracce siano solo due. Pubblicazione originale arricchita da un mucchio di fotografie del periodo scattate da Hassen Turki, all’epoca giovane fotografo e figlio del titolare dell’allora titolare del Marhaba Hotel.
AMHED MALEK & FLAKO, “The Electronic Tapes” (Vol. 5, 2017)
Negli anni ottanta Amhed Malek, protagonista di questo quinto capitolo della serie, all’alba dei cinquant’anni, scopre il macro-mondo dei sintetizzatori e la musica elettronica. È una fase di passaggio che condivide con altri compositori di colonne sonore più o meno conosciuti anche del mondo occidentale e in maniera particolare in Europa. In Italia abbiamo avuto come grande esempio quello del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Ma questa non è stata sicuramente una eccezione a livello europeo e internazionale. Comunque lo sperimentalismo Amhed Malek si spinge forse anche oltre e acquista un carattere eterogeneo. In verità egli compone praticamente per sé stesso: è una specie di hobby oppure diciamo che sono progetti embrionali e che poi non ha mai sviluppato. Con questo non significa che le composizioni non costituissero in sé opere compiute. Comunque tutti questi nastri sono rimasti però mai divulgati. Un po’ perché Malek non aveva concepito questa musica che per sé stesso, un po’ per questioni di tempo. Così sono rimasti inutilizzati fino a dopo la sua morte, quando la famiglia li ha recuperati e li ha messi a disposizione. È stato Flako (nome d’arte di Dario Rojo Guerra) a rimettere assieme i nastri e compilare e coprodurre questa collezione di musica elettronica. L’obiettivo iniziale era quello di creare un album con materiale di due ore, ma poi è stata fatta una selezione. Il risultato è spettacolare: i suoni sono di una fluidità incredibile e hanno caratteri ambienti solenni e che recuperano misticismi Brian Eno, sperimentalismi minimalisti John Cage e avanguardia anni settanta e rumorismi stile Franco Battiato. Alcuni momenti poi sfociano in forme trance tipo compilation uscita su Glitterbeat lo scorso anno. Il peccato forse è il carattere eterogeneo delle composizioni (17 in totale) ma questa pure mi sembra una lamentela eccessiva a fronte della grande qualità dei suoni.
AL MASSRIEEN, “Modern Music” (Vol. 6, 2017)
Probabilmente è il capitolo che ho trovato meno interessante tra le pubblicazioni della Habibi Funk fino a questo momento. Eppure qui ci sarebbe e c’è tanto di quel materiale interessante, che questo disco avrebbe letteralmente dovuto entusiasmarmi tanto da farmi saltare dalla sedia, e invece… La cosa nasce comunque da una svolta nel progetto e che alla ricerca di materiale su vinile, ha portato i fondatori della Jakarta a andare a caccia di nastri e cassette, che circolavano nel mondo arabo sin dagli anni settanta e in maniera massiva in Egitto dalla fine del decennio. Gli Al Massrienn, protagonisti di questa pubblicazione, una raccolta di materiale uscito negli anni settanta, furono un gruppo di discreta popolarità in Egitto:il frontman e leader della band, Hany Shenoda, ebbe anche egli una buona fama e lavorò con tutti i musicisti della scena musicale del paese di quegli anni e con questo progetto (pare che parte del materiale fu pubblicato su vinile in Grecia) cercò di spingere il suo sound oltre quelli che erano i confini di genere di quel periodo. I suoni dei pezzi del disco rimandano a un certo sperimentalismo in ambito jazz e funky e che hanno sfumature negli arrangiamenti di tastiere e di chitarra e l’uso delle voci che definirei pioneristici e persino wave. A tratti si sconfina in forme di art-pop per un disco che ha un fascino misterioso e che più che orecchiabile definirei in qualche maniera sofisticato. Se ci aggiungiamo che tra gli sponsor e i sostenitori in maniera attiva del progetto, come fonte di ispirazione e nel confronto diretto proprio nel porre le basi concettuali e artistiche dell’opera, ci fosse anche Naguib Mahfouz, l’unico vincitore egiziano del Premio Nobel per la letteratura, diciamo che quantomeno non si può fare altro che trovare questo dischetto come meritorio del vostro interesse.
VARIOUS ARTISTS, “An eclectic selection of music from the Arab world” (Vol. 7, 2017)
Alla fine di dicembre 2017 il progetto Habibi Funk si può dire in qualche maniera bene avviato e consolidato. Probabilmente anche per questo, perché le conoscenze si sono ampliate, perché si possono vantare più frecce al proprio arco e perché si è raccolto più materiale, l’etichetta decide di lanciare questa vera e propria “compilation” (che nelle intenzioni avrebbe anticipato pubblicazioni di album di tutti gli artisti coinvolti nel 2018, progetto però poi non completato immagino per esigenze di carattere organizzativo) che raccoglie pezzi che non si possono annoverare a quello che si considererebbe come un sound preciso e nemmeno una selezione di quelli che si possono considerare dei “must” della scena musicale del mondo arabo. In verità la raccolta delle canzoni è stata proprio fatta secondo quelli che sono i gusti di chi dirige l’etichetta, un criterio discutibile ma in fondo un criterio come un altro e certo è che qui non c’è di che lamentarsi, perché il materiale selezionato è nel suo complesso decisamente di buona qualità. “An eclectic selection of music from the arab world” dunque. La prima parte della compilation propone sonorità più rock and roll: la selezione infatti si apre proprio con un nome già sentito prima, quello di Fadoul, poi il rock blues ipnotico e allucinato di Bob Destiny (una interpretrazione incredibile…), il rhythm and blues di Attarazat Addahabia, il boogie di Jalil Bennis Et Les Golden Hands e di Sharhabeel Ahmed e i suoni beat di Belbao. Malek Mohamed, Freh Khodja e Kamal Keila propongono invece il classico afro-beat (da notare negli ultimi due casi le sfumature “zouk” e prossime a sonorità afro-cubane); quindi ecco il funky jazz Hamid El Shaeri e le sonorità lounge spaziali del mitico Amhed Malek (“Bossa”, uno dei pezzi migliori della compilation), Samir & Abboud, Al Massrieen e il cantautorato Alan Sorrenti di Gharbi Sadok & George Garzia. Infine il “reggae” Dalton. Sicuramente raccontare tutta la compilation in poche righe è un progetto ambizioso, questa volta vale veramente la pena di rimandare i lettori all’ascolto diretto: ovviamente non sarà affatto una perdita di tempo. Al contrario!
KAMAL KEILA, “Muslims And Christians” (Vol. 8, 2018)
Kamal Keilaa era già stato introdotto dalla Habibi Funk nella compilation “eclettica” pubblicata a dicembre 2018 e era tra le pubblicazioni annunciate per l’anno 2018. Così ecco che lo scorso luglio è stato dato alle stampe questo LP, “Muslims And Christians” con il quale si fa giustizia (se così si può dire) per quello che riguarda una delle realtà più interessanti per quello che riguarda il mondo arabo e in particolare il Sudan. Per l’occasione i “boss” della Habibi Funk hanno viaggiato direttamente nel paese e entrati in contatto con la scena musicale locale hanno rintracciato e contattato Kamal Keila, che li ha poi ospitati direttamente a casa sua, nella periferia di Karthum dove vive con la sua famiglia. Kamal oggi ha una età tra i settanta e gli ottant’anni (non sa esattamente quando sia nato, comunque all’inizio degli anni ottanta) ed è stato direttamente lui a fornire gli unici nastri contenenti delle sue incisioni: erano ricoperti completamente da muffa, in condizioni terribili, e recuperati appositamente per questa pubblicazione. Neppure Kamal ricordava in che anni li avesse registrati ma a quanto pare vanno da un arco di tempo compreso tra gli anni settanta e l’inizio degli anni novanta. Purtroppo sono andate perse tutta una serie di registrazioni per la radio e censurate per ragioni di carattere politico. Anni sessanta: all’indomani dell’indipendenza, il paese è nel pieno di una guerra civile che poi si protrarrà con un succedersi di eventi fino alla metà degli anni settanta e con una serie di tensioni che trovano la loro “fonte” e pretesto anche in ragioni di natura religiosa. Da qui il titolo della pubblicazione (unica!) di questo album con alcuni pezzi anche in lingua inglese e che fanno giustizia alla considerazione che avvicina Kamal Keita al mito di Fela Kuti. Il Fela Kuti del Sudan? Sì, ma c’è molto altro, la devozione al blues e che qui in forme “sotterranee” evoca John Lee Hooker e si esprime con forme di cantato ipnotico e un sound della chitarra elettrica assolutamente convincente, che esprime quella naturalezza al tatto tipica di quei pochi eletti che hanno dentro di sé quel sacro fuoco che brucia. I testi? I contenuti sono tutti impegnati, dedicati agli orfani di guerra, incentrati su tematiche di carattere politico e dedicate alla realtà del Sudan e quella dell’intero continente, chiamato alla sua unità così come vuole la tradizione-Kuti del mondo afro-beat e di cui qui non manca quel piglio coinvolgente nel sound dei fiati e che combinato a quei tratti blues richiamati, vocalismi James Brown e il fascino delle registrazioni diciamo “consumate”, fa sì che si compia il miracolo: un album imperdibile. Anzi IMPERDIBILE. Uno dei più belli io abbia ascoltato in questi ultimi mesi.
THE SCORPIONS & SAIF ABU BAKR, “Jazz, Jazz, Jazz” (Vol. 9, 2018)
Restiamo in Sudan. Qui Jannis Stuertz, dopo Keila Kamal e dopo un lungo “corteggiamento”, entra in contatto con Amir Sax, uno dei membri fondatori e leader degli Scorpions durante la loro epopea dalla fine degli anni settanta agli inizi degli anni ottanta. L’incontro avviene a Omdurman, lungo le rive del Nilo, dalla parte opposta a Khartoum ed è l’occasione propizia per ricostruire la storia del complesso e che inevitabilmente si intreccia anche qui con la storia complessa del Sudan di quegli anni (situazione possibilmente aggravatasi ancora di più che negli anni settanta con un aggravamento della Shari’a nel 1983 e il colpo di stato del 1989, che ha definitivamente messo fine alla scena musicale del paese). Il gruppo, alla voce qui c’è Seif Abu Bakr, si intrecciò anche con musicisti stranieri della scena jazz internazionale, Amir racconta di avere incontrato Jimmy Cliff e Lewis Armstrong e comunque divenne particolarmente conosciuto in Kuwait, prima appunto del 1989 e della fuga all’estero di molti musicisti (lo stesso Seif Abu Bakr riparò in Kuwait). Comunque questo LP, “Jazz, Jazz, Jazz” è una vera perla per i cultori dell’afro-beat e del funky sound del “continente nero”. Conoscete la Dur-Dur Band? Bene. Diciamo che l’istrionismo di questo gruppo non arriva a quei livelli, però lo stile è molto simile: i pezzi sono orecchiabili, arrangiati con un groove coinvolgente, il suono dei fiati è semplicemente fantastico e i tempi della batteria tipici del genere funky, le tastiere, la mescolanza con i ritmi tribali, danno vita a un sound unico. De facto ad oggi questa è la prima ristampa vera e propria di un intero LP della Habibi Funk, che dopo Kamal Keila mette a segno nel Sudan un altro colpo importantissimo per la storia della musica africana. La discesa dalla costa sul Mediterraneo e poi verso il cuore del continente è proficua: aspettiamo con grande curiosità i prossimi capitoli del progetto.
(Emiliano D’Aniello)