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Questa puntata della nostra rubrica psichelica ospita la recensione di un solo album, visto l’importanza dello stesso.
Non ritornerò sulla questione storicamente dibattuta su se e quanto Anton Newcombe sia considerato oppure no universalmente come un genio e una delle personalità artistiche più rilevanti nel mondo della musica degli ultimi venticinque-trent’anni. Lo considero un dato acquisito e questa premessa costituisce un fatto e una affermazione di principio che è una chiave anche per decodificare cosa dirò su quest’album.
Il disco (eponimo) è uscito la settimana scorsa per la etichetta di Anton, la A Recordings, e segna una discontinuità rispetto al passato, nonostante in effetti le lavorazioni fossero cominciate praticamente in contemporanea con quelle di “Something Else” (2018). Si può dire che la genesi sia stata contestuale (vale la pena di sottolineare ancora una volta l’urgenza espressiva di questo autore, che già è al lavoro su nuovo materiale), ma le registrazioni si sono poi completate in periodi differenti e secondo modalità altrettanto diverse.
È successo tutto a metà del lunghissimo ultimo tour dei Brian Jonestown Massacre e dopo la fine, molto discussa, delle date in Nuova Zelanda e Australia, dove Anton fu coinvolto in una lite col pubblico. L’esperienza negativa in Australia forse è stata la scintilla che ha fatto decidere a Anton che fosse necessaria una nuova svolta nella storia dei Brian Jonestown Massacre. Ha quindi rimescolato le carte e rifondato da zero il gruppo, confermando della formazione storica solo Ricky Maymi e Joel Gion, completando il gruppo con una nuova line-up. Tra questi, Hakon Adalsteninsson dei Third Sound (già nel roster della band sin dall’inizio del tour e collaboratore di Anton nelle registrazioni di “Something Else”) alla chitarra, Heike Marie Radeker (LeVent) al basso e Sara Neidorf alla batteria. Su un pezzo, “Tombes Oubliées” canta una vecchia conoscenza nel giro BJM, Rike Bienert. Il pezzo ha una intro con una serie di sovrapposizione di arpeggi delle chitarre, poi stacchi imperiosi di batteria, un giro vigoroso di basso e un ipnotismo drone accompagnato da una cantilena in uno stile prossimo a quello dell’album “Methodrone”.
Il sound è in effetti volutamente grezzo e da questo punto di vista segna un ritorno al passato. “Remember Me This” è una ballad elettrica nello stile di quelle di metà più accattivanti della metà degli anni novanta e probabilmente il pezzo meno interessante in un lotto di canzoni di ottimo livello, come “Drained”, “Cannot Be Saved”, “What Can I Say”. Pezzi già anticipati nel corso del tempo. La voce di Anton è sempre distorta, fa contrasto con gli sciami di riff di chitarra elettrica che regolarmente si scatenano dopo le parti cantate in lunghe estensioni come nella tradizione storica della band. Da segnalare la strumentale “My Mind Is Filled With Stuff”, il blues psichedelico di “A Word” e soprattutto le dimensioni anni sessanta (con tanto di suono acido delle tastiere e “pistolettate” di chitarra elettrica) di “To Sad To Tell You”. Ma il pezzo forte è “We Never Had A Chance”, destinata a diventare un classico nel repertorio BJM.
La sensazione finale è che questo rimescolamento, per quanto abbia dispiaciuto me come altri fan storici, fosse un passaggio inevitabile. La “base” di Anton Newcombe è oramai Berlino, nel cuore della vecchia Europa, probabilmente con questo “stacco” ha deciso di operare un rinnovamento generazionale nel roster del gruppo, presentandosi così alle porte del prossimo decennio e spargere un nuovo seme che dia nuova linfa al rock psichedelico.
Emiliano D’Aniello
88/100