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Antonio Raia è un musicista che ha dietro le spalle un bagaglio, uno zaino che si irrobustisce suono dopo suono, scoperta dopo scoperta e che permette all’artista di elaborare e macinare continuamente nuove idee brillanti, profonde.
“Asylum”, titolo del nuovo disco di Raia, è un varco che si apre in continua tensione tra rottura della tradizione e continuità della stessa.
Noi l’abbiamo intervistato per farci raccontare com’è nato e quali concetti porta dentro il suo meraviglioso album.
– Che legame c’è tra rottura e continuità di una tradizione musicale?
Il mio bagaglio retrospettivo non posso dire sia dormiente, anzi è vivo e attivo. In base alla mia esperienza credo sia un cercare trasformazioni dell’antico senza soluzioni ammiccanti al consumo e al mercato. Il fulcro resta il Sentimento che c’è alla base di quell’atto creativo, poi il “come” verrà espresso porrà il confine tra il “nuovo” e il “conosciuto”.
– Secondo te in che modo si deve dialogare con le tradizioni storiche musicali?
Bisogno essere dei grandi osservatori e ad allenare la propria sensibilità verso visioni acute a servizio di nuove soluzioni. Bisogna trovare la strada per meravigliarsi ancora, bisogna cercare l’incanto a favore di realtà collettive e ritualistiche. Non sono contrario a visioni artistiche di repertorio con ripetizioni quasi “museali” anche se sono infinitamente distanti da me. Un opera lirica come Murolo che interpreta un classico sarà eterno e meritevole del tempo dedicatogli. Sono invece nettamente contrario alle ostentazioni folcroristiche che umiliano la storia a favore di superficiali e mediocri visioni.
– Come sta cambiando l’identità del “suono di Napoli”? Chi lo sta innovando e come?
Non c’è nulla da innovare o svecchiare, ne c’è un singolo o gruppo che possano essere portatori del “nuovo”, questi sono concetti di cui il mercato si serve per vendere.
L’innovazione appartiene alla “tecnica”, alla scienza, all’economia e non ha nulla a che fare con l’arte, invece il “suono di una città” appartiene all’anima della stessa, le due cose sono in contrasto, ed io tifo per l’anima che poi muove corpi con identità.
Quindi non ci sono singoli da esaltare ma piuttosto ascoltatori e osservatori attenti da auspicare.
– Come cerchi di lavorare sui live per trasmettere il turbine di emozioni che regali nell’album? Che lavoro hai fatto sul suono e sullo strumento stesso?
È importante cercare strutture aperte, non dedicarsi ad approdi classici e sicuri.
Prendo da ciò che mi circonda, poi il sax è un mero strumento, oggetto con il quale devo interagire a costo di suonarlo non in maniera convenzionale per arrivare al suono che ho in mente.
In fase di registrazione come nei live ti segnalo Renato Fiorito, sound engineer e compositore elettronico, con il quale mi confronto sempre per porre attenzione ad alcuni aspetti di psicoacustica in fase di scaletta o approccio all’impro. Provo sempre a stabilire scenari d’azione ma lascio sempre che il “Caso” faccia la sua parte per poi relazionarmici in tempo reale.
– Cambiamo leggermente argomento. Il tuo disco è un grido anche alla contaminazione: la contaminazione e l’arricchimento partono anche da un’analisi dello stato di rifugiato (politico o “culturale” che sia). Come si dovrebbe riflettere oggi su questa parola e sullo status di rifugiato?
La risposta andrebbe chiesta e scovata nel confronto fra risposte di illuminati e figure autorevoli su argomenti geopolitici e socio-culturali.
Io come artista e uomo, cosciente della ricchezza e dell’importanza del valore della contaminazione, non posso che limitarmi a lanciare un input verso la curiosità ad informarsi e scegliere fonti, verso una volontà di analisi. Oggi c’è confusione di ruoli, la tuttologia è il virus.
– “Asylum” cosa significa? Come questo concetto tocca la tua percezione del mondo contemporaneo (musicale e non)?
Asylum è dedicato all’asilo come luogo di gioco per bambini, ai rifugiati politici, a L’Asilo Filangieri di Napoli che ha ospitato le registrazioni e agli asili luogo di ricovero dei pazzi.
Un lavoro fintamente in “solo” e realmente un contenitore di vite, serietà, gioco e volontà di fare per tutti.
– Hai letto/ascoltato qualcosa in particolare durante la realizzazione del tuo disco?
Di solito leggo e ascolto molto ma durante le registrazioni ero infinitamente concentrato tra l’assecondare i miei flussi e l’essere quanto più fedele alle mie composizioni.
– Come si sta raccontando/esprimendo secondo te, in questi anni, il sud del mondo? Cosa credi sia importante trasmettere di questo mondo antico ma ricco di colori e passioni?
Nei miei 30 anni ho visto quartieri tedeschi, francesi, olandesi e persino svizzeri e norvegesi somigliare in tutto a zone di Napoli come al Marocco. Il sud del mondo già contamina il nord e viceversa, la battaglia non è più lì ma si gioca tra poveri e ricchi, tra chi scegli e chi subisce le scelte.
– L’altro giorno stavamo parlando del tuo disco come uno studio tra dicotomie e contrasti. Quali sono i contrasti che oggi ti fanno più paura nel mondo? Perchè?
Il contrasto che più temo è nella comunicazione.
Oggi è tutto molto veloce, i titoli sono più importanti degl’articoli, l’attenzione media è di 7 secondi e pare siamo condannati a non voler approfondire, scavare.
Temo la comunicazione d’impatto di tipo slogan pubblicitario per il suo appeal di massa maggiore rispetto a quello che possa essere un vero contenuto di analisi, che di per se non può racchiudersi in tre parole.
Foto di: Luca Anzani