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Sesto album da studio per il premio oscar Ryan Bingham a quattro anni dal deludente “Fear and Saturday Night”. Per questo lavoro alla coproduzione c’è Charlie Sexton, ormai da dieci anni il chitarrista di Bob Dylan e con un ottimo passato da solista (vedi la colonna sonora di “Thelma & Louise”).
La carriera di Ryan Bingham iniziò più di dieci anni fa e raggiunse l’apice, dopo una vita personale ed artistica vissuta nel lonestar state, in occasione della collaborazione con T Bone Burnett nella colonna sonora di “Crazy Heart”, film del 2009 nel quale recita un ruolo da coprotagonista con Jeff Bridges e firma un paio di brani della colonna sonora. “The Weary Kind”, uno dei due pezzi, vinse nello stesso anno: Oscar, Golden Globe e Critics’ Choice Award. Una tripletta che pochi possono vantare.
Da lì la via è stata in discesa: il mondo scoprì la sua prima produzione, il gioiello “Mescalito” del 2007, il fresco “Roadhouse Sun” del golden year 2009 e il terzo “Junky Star” ovviamente tutti million seller. Visto come chi potesse riportare l’ “Americana” ai livelli del secolo precedente, Bingham era pronto per essere incoronato il ‘nuovo Steve Earle’ ma con l’ingresso negli anni ’10 la sua vena sembrò annacquarsi. I lavori successivi non risultarono all’altezza pur rimanendo sempre a livelli dignitosi furono di un livello troppo medio per andare oltre al piacevole ascolto da appassionato del genere.
Ora con “American Love Song”, nei suoi quindici brani registrati per la sua Axster Bingham Records, Ryan cerca di farci capire quanto ama la sua “America”, come la vede in bilico tra tragedia e trionfo e come lo sta facendo soffrire. Per esprimerlo usa il blues, vera novità per lui. Fin dalla rovente “Jingle and Go”, un notevole hard blues, il cambiamento rispetto al country-rock a cui ci aveva abituati è evidente e lo confermano anche il moan di “Situation Station” e il boogie di “Got Damn Blues”. Qui viene chiamato in causa il Presidente, colpevole di ferire tutto ciò che ama. La dose viene rincarata in “Beautiful And Kind”, in puro stile hobo, dove dice: “This world is causing trouble/People judging colors of skin/People takin’ children from their kin/No matter where you’re from or where ya been/Oh lord, this world is hardly beautiful or kind”, il pezzo in questione centra l’obbiettivo sia musicale che a livello di testo riuscendo ad unire ciò che Ryan sa fare meglio cioè raccontare storie e quello che gli arriva dal cuore.
Non tutto va per il verso giusto però: le forzature in “Lover Girl”, molto vicina ai brani che John Mellencamp già aveva fatto quindici anni fa, non trova un vero posto nel contesto del disco come danno la sensazione le conclusive “America” e “Soul lady” che potremmo definire dei riempitivi.
Quando invece Bingham lascia la chitarra a Charlie Sexton escono brani come “Got Damn Blues” con un riff perfetto e un sapore di polvere (anche il chitarrista è texano) e frontiera, come da dieci anni non si sentiva o il singolo “Wolves” che riesce a catturare l’attenzione per freschezza e aperture melodiche, peccato per il testo non molto profondo. “Blue” (“If I could find my door/ I’d give you my key”) e l’evocativa “Stones” sono gli ultimi colpi degni di nota dell’ora e sei minuti di un disco riuscito fino ad un certo punto, forse troppo pieno di brani fuori dalle corde dell’autore.
Da chi ha composto brani come “Sunrise” e “The weary kind” ci si aspetterebbe molto di più, sicuramente piacerà agli amanti del genere, ma per gli altri rischia di essere archiviato come secondario.
65/100
(Raffaele Concollato)