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Negli anni zero l’Inghilterra è stata il centro propulsore di uno sfrenato revival post punk, alla ricerca della “The Next Big Thing” da mettere in copertina su riviste come New Musical Express. Per contingenza geografica, e poco altro, in questo calderone nostalgico di “indie rock” ci sono finiti anche i These New Puritans di “Beat Pyramid” (2008), quanto di più lontano dal concetto di band e di pretenziosità rock’n’roll incarnata da formazioni come, per esempio, i presto dimenticati The Subways, considerati quest’ultimi quasi “comici” e “ridicoli”, leggasi un’intervista del 2010 al The Guardian di Jack Barnett, mente sonora dei TNP.
Disco dopo disco, naturalmente, questa distanza tra il mondo della “pop(rock) music” (chiamiamolo così per convenienza) e il gruppo dei fratelli Barnett (Jack e George) è diventata sempre più grande: da quartetto sono diventati un duo (i due Barnett), che in fase di registrazione in studio si fa accompagnare da musicisti di estrazione classica, quasi a voler orchestrare scenari sonori tra classicità e modernismo, spesso difficilmente catalogabili in strutture analitiche di facile comprensione, d’altronde Jack Barnett si è definito tempo fa come un “massimalista nel cuore” e ha più recentemente raccontato di preferire “l’arte che va oltre lo specchio del proprio tempo“.
Questo processo di rottura e destrutturazione delle regole, cominciato nel 2010, arriva con “Inside the Rose”, pubblicato nemmeno una settimana fa, ad una nuova fase creativa, più diretta, più di forte impatto, anche a livello visivo, dal packaging del disco ai videoclip musicali diretti da Harley Weir: l’album, nonostante sia stato registrato e scritto in parte alla Funkhaus Nalepastraße (ex stazione radio della DDR), non è influenzato dal clima post-decadente “berlinese”, si pone piuttosto a metà strada tra due estremi – tra l’immediatezza pop (solo in apparenza tale) e ricerca sperimentale. In sostanza un incrocio tra il precedente “Field of Reeds” (2013) e “Hidden” (2010). Da una parte i ritmi muscolari, marziali, fisici, elettronici e dall’altra la trascendentalità minimale degli arrangiamenti d’archi, fiati e piano.
Sempre più centrale e viscerale, come non mai, la voce di Barnett; melodie quando meno te l’aspetti e gli opposti che si scontrano e attraggono, la spettralità di David Tibet (Current 93) in “Into the Fire”, il tocco catchy della vocalità femminile della produttrice taiwanese Scintii in “Beyond Black Suns” e gli interventi quasi operistici delle due soprano Micaela Haslam e Michelle Daly.
Tra l’immaginazione che diventa “la stessa esistenza umana”, come diceva William Blake, fonte di ispirazione per “Anti-Gravity”, e la dimensione eterea di brani come “Where the Trees Are on Fire” – ispirata da un sogno – e il desiderio di “cose oltre la normalità” della già citata “Into the fire”, “Inside the Rose” è un lavoro tra l’estatico e l’apocalittico. Dolce e selvaggio.
77/100
(Monica Mazzoli)