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Mi aspettavo che un film come “Frank” (2014) di Lenny Abrahamson sarebbe diventato un grandissimo successo. Invece è diventato “solo” un cult, che poi è molto meglio, perché significa che non sarà oggetto di nessuna spregiudicata azione di carattere commerciale e questo ne manterrà intatti i contenuti.
Ispirato al personaggio di Frank Sidebottom, l’altero ego del musicista e comico britannico Chris Sievey, il protagonista del film è appunto Frank, frontman di incredibile talento di un gruppo “sotterraneo” denominato Soronprfbs e costretto a indossare sempre una gigantesca maschera di cartapesta che ne nasconde il volto. “Frank” racconta la sua storia e il suo rapporto con il giovanissimo Jon (Domhall Gleeson) e si può iscrivere benissimo a quella categoria di film tipici da Sundance. La migliore categoria di film tipici da Sundance.
La colonna sonora bellissima e la incredibile interpretrazione di Michael Fassbender, che spadroneggia in espressività e presenza scenica, carisma, nonostante indossi la maschera, fanno la differenza in un film che spinge in maniera forte sulla introspezione e l’analisi a livello emotivo del personaggio come di stessi e dove si mescolano le figure dei due protagonisti, specchiandosi l’uno dell’altro attraverso la “maschera”.
Ma Frank Sidebottom esisteva veramente: Chris Sievey è deceduto nel 2010, ma aveva legami diretti nel mondo della musica, essendo stato egli stesso protagonista nella scena di Manchester tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. Ci sono video di Frank Sidebottom ancora oggi reperibili su internet e il personaggio del film ne riprendeva alcune caratteristiche, ma era nel complesso meno “parodistico” e spinto agli eccessi rispetto all’originale.
Il sottile tra la verità e la parodia è sottile, così come la “maschera” in sé è una componente che non è inedita nella storia della musica. Chi si nasconde dietro i Residents. Lo stesso Jack Black in fondo è una specie di “maschera” che pure senza indossarla, porta alle massime conseguenze le sue caratteristiche sia sul palco che sulle scene. Pure Ricky Gervais ha fatto qualche cosa del genere. Oppure, per esempio, chi è Neil Hamburger.
La sua partnership con la Drag City, che va avanti adesso da più di vent’anni, si è appena rinnovata con la pubblicazione dell’album “Still Dwelling”. Personaggio inventato dal comico austro-americano Gregg Turkington, legato poi a doppio filo con la scena punk di San Francisco, ha suonato con gli Easy Goings, i Totem Pole of Losers, gli Zip Code Rapists, capo della Amarillo Records, Neil Hamburger ha una personalità che è prossima a quella del doppio di Andy Kaufman, Tony Clifton, il suo stile sul piano della caratterizzazione va al di là di ogni possibile previsione e i contenuti delle sue pubblicazioni discografiche sono incredibili.
Questo spiega in buona sostanza perché la Drag City si sia interessata nella pubblicazione dei suoi lavori e perché questi sono da ascrivere al genere psichedelia. Anche se chiaramente per dare una risposta compiuta a queste due domande, bisogna ascoltare i suoi dischi. Definito come “America’s Funnyman”, qui in questo ultimo disco Gregg Turkington si lancia nella interpretrazione di pezzi inediti, come nella revisitazione di qualche pezzo più o meno conosciuto di grandi artisti del passato. Tra questi i più ricorrenti sono Lennon/McCartney: “Backwards Traveller” di Macca, “Word Without Love” e “Isolation”.
Lo stile è riconducibile alla psichedelia più acida e sperimentale: ho menzionato i Residents, ma vi possiamo trovare rimandi a alcune visioni Stan Ridgway, di cui Gregg appare una specie di parodia nell’uso della voce (che tocca picchi glamour tuttavia volutamente eccessivi), così come possiamo pensare a quei suoni disturbati tipo Jad Fair e lo stile stralunato di Daniel Johnston. I riff di chitarra sempre taglianti, le tastiere progressive acide, l’apoteosi di fiati e fanfare, tutto questo teatralismo, fanno dell’album una vera e propria rock opera psichedelica, tra Half Japanese e Red Krayola, reminiscenze del sound texano delle origini, indietro fino agli anni sessanta.
Tutto questo rende questo personaggio, Neil Hamburger, non solo una specie di figura “caratteristica”, ma al contrario lo elevano al rango di musicista e arrangiatore visionario tra classico e avanguardia sotterranea, e questo disco è un ottimo punto da dove cominciare la esplorazione di questo pezzo di mondo musicale poco conosciuto. Sicuramente meno di quanto meriterebbe. Ancora una volta tanto di cappello alla Drag City.
(Emiliano D’Aniello)