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Terzo appuntamento con l’approfondimento degli Anni Dieci. E questa volta è lo stesso format ad essere, crediamo, in linea con i tempi. Negli ultimi anni infatti si è assistito ad un proliferare, soprattutto sui social, dei remember e delle celebrazioni non appena viene a mancare un personaggio musicale. Un fenomeno per certi versi encomiabile (il ricordo del passato e delle figure importanti che furono è cultura da preservare) e per altri un po’ effimero considerato che solitamente nasce e muore nell’arco di qualche giorno modello trending topic. Ci avevamo pure dedicato uno speciale, a questa pratica del “coccodrillo social”.
In ogni caso: ci pare dunque un modo coerente con gli Anni Dieci andare ad indagare quali siano state in questo stesso decennio le perdite importanti a livello di musicisti. Chiaramente non è una classifica (sarebbe inelegante, qui sono in rigoroso ordine cronologico di scomparsa) ma solo l’individuazione, secondo noi, di chi avrebbe potuto dare ancora molto negli Anni Venti, oppure semplicemente di chi ci segnato così tanto che, comunque, ci mancherà. Ah, non li abbiamo approfonditi, ma a questo elenco potete aggiungere anche Scott Walker, Leonard Cohen e Amy Winehouse.
Le altre puntate degli speciali sugli Anni Dieci le potete recuperare qui:
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 1
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 2
– I live memorabili degli Anni Dieci
JAY REATARD (1 maggio 1980 – 13 gennaio 2010)
Jay Reatard (vero nome, Jimmy Jay Lindsey Jr.), nato e morto (nel 2010) a Memphis, è l’ultimo figlio dell’underground americano. Dotato di un talento nella scrittura fuori dal comune è sempre – dall’età di diciassette anni – andato alla ricerca costante nel sottosuolo, nei bassifondi della sua città, di un proprio “suono”, libero da condizionamenti altrui : prima da solo, poi con varie formazioni (Lost Sounds, Final Solutions, CC Riders, Angry Angles ecc.) e alla fine di nuovo in solitaria ha viaggiato in direzione ostinata e contraria, dalla rabbia violenta, grezza delle produzioni garage punk a nome Reatards pubblicate per la Goner Records di Eric Oblivian alla discografia più power pop (ma pur sempre a bassa fedeltà) da solista per la Matador Records.
(Monica Mazzoli)
MARK LINKOUS (9 settembre 1962 – 6 marzo 2010)
Tra i meravigliosi cinici della musica c’era chi, chi già nel 1988, alla fine dei Dancing Hoods, scommetteva sul “quando” Mark si sarebbe suicidato. Era dato per scontato che sarebbe accaduto e lui non ha mancato nell’accontentarli. Non è cosa sconosciuta che ogni singola nota dei pezzi degli Sparklehorse sia satura di mal di vivere e tristezza e dolore e pena. Va bene così, è qualcosa che ha reso ogni disco, anche il poco considerato “Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain”, una cazzo di meraviglia di potenzialità e versatilità di indie rock “chenonnefannopiùcosì”, anche il traumatico e sfigatissimo progetto “Dark Night Of The Soul”. Sì, sfiga, depressione, quel peso che non ti fa alzare la mattina nonostante il corpo lo faccia, lo conosco fin troppo bene, l’ha conosciuto fin troppo bene Mark. Non so se sia servito per rendere servizio così bene al capriccioso dio della musica, anche per le innumerevoli opere da produttore e polistrumentista. Non so se la tristezza e il dolore siano davvero indispensabili per rendere speciale davvero la propria musica, che è tutto ciò che ci rimane di Linkous, uno dei giganti silenziosi delle quattro note storte, come Elliott Smith, come Jason Molina. Bianconi avrebbe voluto lui come produttore de “I Mistici dell’Occidente”, tutti non pronunciamo quasi mai del tutto “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”, ma ne siamo ammaliati e colpiti. La musica di Mark è stata ed è ancora carburante per chi riesce a metabolizzarla nel verso giusto in questo “meraviglioso mondo”, mentre lui, un pomeriggio ha deciso di andarsene sparandosi con un fucile sotto il mento che gli ha portato via metà faccia, ma non l’ha ucciso subito. Dopo ore, all’arrivo dei soccorsi, era ancora vivo e non ho proprio desiderio di capire o solo pensare a ciò che deve aver provato. I cinici di poco su, ridevano del fatto che “manco nel suicidio è stato capace fino in fondo”, e, in fondo sono quelli che questo meraviglioso mondo lo dominano, ma chissà se hanno mai capito davvero ciò che Mark ci ha donato.
(Giampaolo Cristofaro)
LOU REED (2 marzo 1942 – 27 ottobre 2013)
“Pervert your sense of decorum”: recita così la scritta bianca del poster che da adolescente attaccai sul muro della mia cameretta. Uno dei tanti. Sul poster c’è Lou Reed ritratto di profilo, un taglio di capelli geometrico, degli occhiali da sole enormi. È il poster che si trovava nell’audiocassetta di “Lou Reed Live” del 1975: un’audiocassetta che non ho, un disco che non ho, nemmeno il poster non è un poster, ma un semplice file jpeg scaricato da Internet e poi fotocopiato su un normale foglio bianco. Tutto questo per dire che per me Lou Reed è sempre stato qualcuno appartenente ad un’altra epoca, ad un altro mondo – una riproduzione di qualcosa che non ho potuto vivere nella sua versione originale, per specifici impedimenti cronologici. Ci ho messo qualche anno a capirlo, ma col senno di poi per me era già morto ben prima del giorno della sua morte naturale – o meglio ancora, non era mai stato vivo davvero. Realizzarlo ora, a distanza di anni, mi fa sorridere: è come se mi accorgessi solo adesso che il mio trasporto verso la sua musica sia stato prima di tutto una roba emotiva, e quindi tanto autentica quanto irrazionale. Nei miei ventinove anni non ho vissuto nulla di quello che ha cantato Lou Reed – fortunatamente, sfortunatamente? – ma ogni volta che ascolto sue canzoni mi vengono i brividi. E quindi ho smesso di chiedermi il perché: è una reazione incontrollata che sono sicuro gli sarebbe piaciuta molto.
(Enrico Stradi)
DJ RASHAD (9 ottobre 1979 – 26 aprile 2014)
Ci sono figure la cui importanza si coglie per davvero dopo un decennio e più. Lo stesso decennio che ha segnato la parabola artistica di Rashad Harden, prematuramente spezzata dopo una notte di mix fatali di cocaina e xanax. Cresciuto nei sobborghi di una delle città musicalmente più importanti degli anni Dieci, soprattutto per la black music, ha dato un nuovo respiro e un’innata freschezza al clubbing underground americano. Se oggi sentiamo parlare di footwork senza dover dare troppe spiegazioni lo dobbiamo alla sua geniale ricerca musicale che ha reinventato in chiave techno contemporanea la scuola del juke di Chicago che spara a velocità impazzita motivi e groove ghetto-house. Una delle ultimi grandi invenzioni dell’elettronica. Il ricordo personale, come si usa fare in questi casi, va a un’incredibile serata nello storico 285 Kent di Brooklyn nel 2012 (locale di Williamsburg simbolo della scena underground che avrebbe chiuso i battenti qualche anno dopo), a pochi giorni dal disastro dell’uragano Sandy e alla vigilia della rielezione di Barack Obama. Sarebbe stata una delle ultime serate di Tek Life per “pochi intimi”. Tra gli altri ospiti, oltre a lui, i boss della scena Spinn, Manny e poi Zomby che ai tempi di stanza nella città era solito organizzare dei rave molto posati e newyorkesi. Era un’altra New York, sicuramente un’altra America (link).
(Piero Merola)
DAVID BOWIE (8 gennaio 1947 – 10 gennaio 2016)
A Bowie abbiamo dedicato un intero speciale i giorni successivi alla sua morte, che potete ritrovare qui: “Pensieri sparsi su David Bowie”.
PRINCE (7 giugno 1958 – 21 aprile 2016)
Prince Rogers Nelson è stato un artista cardine per le sorti della musica pop, in termini di quantità e soprattutto qualità. Realizzando oltre cinquanta album dal 1978 – per una discografia in fieri, visto che ha lasciato nastri che con il tempo vedranno la luce – è riuscito ad unire i percorsi dei suoi eroi black e non (Miles Davis, George Clinton, Joni Mitchell, Beatles e Jimi Hendrix per citare i fondamentali) in un glorioso e iperbolico sound legato indissolubimente al nome della sua Minneapolis. Nei dieci anni intercorsi tra “Dirty Mind” (1980) e “Lovesexy” (1988) ha avuto il mondo ai suoi piedi, in una scalata alla notorietà dove si trovava costantemente davanti a tutti; apice del suo genio unire la musica allo svolgimento cinematografico nell’immortale effigie della pioggia color porpora, in fondo ciò di cui è fatta la vita di tutti noi. Che poi c’è chi gli favorisce come il sottoscritto “1999” e “Sign’ O’ The Times”, ma questo giusto per dire che il viaggio nella storia di Prince è denso di rivelazioni e amore a primo ascolto. La strada da lui battuta la affrontano oggigiorno Beck nel rock, Frank Ocean e D’Angelo per il nu soul, Anderson. Paak e Janelle Monàe nel genere r’n’b e forse l’erede più accreditato allo stesso successo di pubblico e critica: mr. Kendrick Lamar. Che nessuno di loro dimentichi mai la lezione dell’artista a tutti noto come Prince.
(Matteo Maioli)
GRANT HART (18 marzo 1961 – 13 settembre 2017)
La mancanza è un sentimento sottovalutato. La mancanza di qualcuno confluisce nei ricordi, quindi si scava nel passato. Ma la mancanza è anche proiettata nel futuro. Perché la “non presenza” ci fa pensare a cosa sarebbe successo dopo. Grant Hart manca, non tanto per una improbabile seppur idilliaca reunion con gli Husker Du; Grant Hart manca perché il “dopo” avrebbe potuto toccare (ancora) vertici artistici altissimi. Batterista ma anche interprete sublime, nel 2013 lascia al mondo il testamento della sua visione in musica. Pensare che “The Argument” avrebbe potuto avere ulteriori sviluppi, fa più male che pensare che mai più avremo la possibilità di vederlo “rullare” ancora una “New Day Rising”. La mancanza del futuro è sempre peggiore di un crogiolarsi malinconico nella bolla temporale del passato.
(Nicola Guerra)
CHARLES BRADLEY (5 novembre 1948 – 23 settembre 2017)
Sul ponte di Via Stalingrado a Bologna, tra i numerosissimi murales dedicati alla città ed alle personalità locali, uno dei graffiti più appariscenti recita “Be Strong Charles, Screaming Eagle of Soul”. La faccia ritratta sotto la scritta è quella di Charles Bradley, che forse non è stato un gigante della musica come gli altri artisti di cui si parla in questo elenco di memorie, ma se la sua storia è valsa un graffito in un posto lontano migliaia di chilometri dagli Stati Uniti allora non si può non ricordare anche qui la vita incredibile di quest’uomo, terminata nel 2017 dopo 68 anni di lotta e speranza. Cresciuto a New York in una situazione familiare miserabile, Bradley fa i lavori più disparati per poi iniziare negli anni ’90 ad esibirsi in piccoli locali come imitatore di James Brown sotto vari soprannomi, tra i quali proprio “Screaming Eagle of Soul” per la sua voce poderosa. Durante uno dei suoi spettacoli viene scoperto dal proprietario della Deptone Records che dal 2002 inizia a pubblicare i suoi primi singoli funk e soul. Poi, come è capitato con il Rodriguez di Sugar Man, un documentario sulla vita di Bradley (Soul Of America) presentato nell’edizione del 2012 del SXSW dà una svolta inattesa alla sua carriera facendolo finalmente conoscere al mondo, dopo la pubblicazione del primo vero disco arrivata all’età di 63 anni. I sacrifici e la sofferenza sono stati finalmente ripagati ed i pezzi di Bradley finiscono in film e serie tv, come la straordinaria cover di “Changes” dei Black Sabbath usata come sigla di apertura dello show di Netflix Big Mouth. La carriera di Charles Bradley ed i tre dischi che è riuscito a pubblicare nei suoi ultimi anni di vita sono l’esempio supremo di come, alla fin fine, non sia mai troppo tardi.
(Stefano D. Ottavio)
LIL PEEP (1 novembre 1996 – 15 novembre 2017)
La parabola di Lil Peep è stata tanta intensa quanto breve. Ricordo che le prime volte che ascoltavo dei suoi brani era nella prima metà del 2017, quando anche da noi cominciava a circolare quel mood Gothboiclique.
La primissima volta che ho ascoltato “witchblades” fu uno shock, e per qualche giorno ho camminato per Firenze facendo passare dalle cuffiette un flusso ininterrotto di disperazione, rabbia, fentanyl. Peep è stato uno dei primi ad unire un mood, uno stile di narrazione che avevo solo asoltato in dischi più vecchi di me, con un linguaggio generazionale che mi arrivava al cuore, e allo stomaco, senza filtri di sorta.
Quando è arrivata la notizia della sua overdose, non potevo crederci. Sembrava passata una vita, mentre Peep se ne è andato nello stesso anno in cui l’avevo conosciuto. Nel frattempo, una manciata di singoli, un disco ufficiale e uno postumo uscito di lì a breve. Continuo a tornare a casa nella notte con “beamer boy” a tutto volume nello stereo della macchina, pensando a tutto quello che sarebbe potuto essere e ora non c’è più.
(Matteo Mannocci)
MARK E. SMITH (5 marzo 1957 – 24 gennaio 2018)
Il 18 Novembre del 2017 dovevo essere all’Hard Club di Porto, per assistere al live dei Fall.
Invece probabilmente ho passato la serata in giro per la Baixa a bere birra di dubbia qualità, perché il concerto non si è mai svolto, a causa dei problemi di salute di Mark E. Smith, che due mesi dopo lo hanno portato al decesso.
“Sono sempre diversi, sono sempre gli stessi”, era l’etichetta perfetta appiccicata addosso ai Fall dal grandissimo John Peel.
Nella loro ultima incarnazione i Fall avevano un poco abbandonato quel caleidoscopio di krautrock, post-punk e rockabilly che li aveva resi unici e leggendari, andando a sposare un più “classico” garage rock. Tuttavia una delle grandi capacità di Smith era sempre stata quella di rilanciarsi, e sfornare un grande album, proprio quando chiunque era in procinto di considerare il gruppo fuori dai giochi. Magari l’avrebbe rifatto ancora, forse in modo totalmente imprevedibile, come quando mise in piedi un side project dance-punk, chiamato Von Südenfed, assieme ai Mouse on Mars.
Del resto uno dei dischi più acclamati nella discografia del gruppo, ‘Hex Enduction Hour’, era arrivato dopo che il frontman aveva deciso di chiudere i rapporti con la Rough Trade e registrare per una piccola etichetta emergente, la Kamera, che si occupava prevalentemente di heavy metal.
Poco ha avuto senso in Mark, fin dall’inizio. Dall’appassionarsi ai tedeschi Can, vivendo nella Manchester dei primi anni Settanta, fino alle strane dichiarazioni sulla Brexit (“It was great”).
Mancherà nel prossimo decennio una figura così priva di filtri e compromessi, sempre assolutamente outsider. Folle, direbbero molti.
Mark E. Smith è stato anti-nostalgico fino alla fine, anche nei confronti di sé stesso: non gli è mai importato riproporre i vecchi classici, quanto sempre portare in giro i suoi pezzi più recenti. Una delle sue fantasie era che i giovani fan superassero in numero i vecchi pelati che affollavano i suoi concerti.
Stewart Lee scriveva: “il disco più importante dei Fall è sempre il più recente”.
Sarà un peccato non sentirlo, nel 2027, gridare “I’m a 70-years old man / What’re you gonna do about it?”, riadattando uno dei pezzi migliori di ‘Imperial Wax Solvent’, secondo molti l’ultimo grande disco dei Fall.
L’epitaffio lo lasciamo ovviamente a lui: “I used to be a psychic, but i drank my way out of it”.
(Carmine D’Amico)
MARK HOLLIS (4 gennaio 1955 – 25 febbraio 2019)
Le tracce di Mark Hollis si erano perse da oltre un decennio, eppure la notizia della morte, lo scorso 25 febbraio, ha preso tutti quanti alla sprovvista. In poche altre occasioni si era vista un’ondata tanto coinvolgente di messaggi di cordoglio e dimostrazioni d’affetto. A ben vedere è piuttosto facile dare una spiegazione a una reazione simile. Il percorso intrapreso da Mark con i suoi Talk Talk è stato tanto peculiare da coinvolgere al tempo stesso le (ex) teenager dai capelli vaporosi e ossigenati dei colorati anni ’80 e i più introversi appassionati cultori del post rock, i quali, in un viaggio a ritroso, hanno probabilmente scoperto che ben prima dei Mogwai e di album seminali come Hex dei Bark Psychosis c’erano stati “Spirit of Eden” e “Laughing Stock”. Dischi rivoluzionari che hanno fatto della dimensione meditativa, delle pause e dei silenzi una poetica dello scorrere del tempo; dischi che sono agli antipodi dell’attuale estetica dominante del tutto e subito e che riascoltati oggi svolgono quasi una funzione di mindfulness per l’anima. La grandezza della seconda parte di questa carriera non deve portare a sottovalutare la stessa capacità di Hollis nel confezionare anche singoli pop di pregevole qualità – tra cui le celeberrime “Such A Shame” e “It’s My Life” – che poco avevano da invidiare a quelli dei contemporanei Duran Duran con i quali condividevano tra l’altro lo stesso produttore (Colin Thurston). Nonostante sia rimasto sostanzialmente fuori dalle scene dal ’98, anno in cui venne pubblicato il suo unico splendido album solista, e fatta eccezione per alcune sporadiche collaborazioni con altri artisti in vari contesti, non possiamo escludere che Mark avrebbe riservato (assecondando i suoi tempi, magari tra dieci anni o chissà quando) ancora qualche altra inedita, spiazzante e singolare sorpresa delle sue.
(Eulalia Cambria)