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Quando entriamo l’atmosfera del Teatro Antoniano è pervasa da un silenzio religioso. Si entra in orario e in maniera ordinata, poche parole, si spengono i cellulari e inizia la grande attesa. Si ascolta con attenzione la performance d’apertura di Lullabier: intuizioni interessanti, ottima presenza sul palco, mani abili da strimpellatore incallito e voce tremante da cui traspare tutta l’emozione di un giovane musicista che sta realizzando il proprio sogno.
Lo scenario è quello a cui i Low ci hanno abituato negli ultimi tour: assetto minimale da distruzione creatrice, strumentazione spoglia e ridotta all’essenziale, tre schermi rettangolari che proietteranno sullo sfondo luci e colori, paesaggi incontaminati, sfigurazioni, stormi di uccelli in volo. I coniugi Sparhawk/Parker e il bassista Steve Garrington conquistano il palco con autorevolezza e fin dalle prime esecuzioni mettono subito in chiaro un paio di cose: >”Double Negative” è uno dei dischi più oscuri della produzione Lowiana (sono lontani i tempi luminosi di “I could live in hope”) e chi si aspettava la svolta elettronica anche dal vivo dovrà ricredersi. I Low portano in scena la loro “Waste Land” con poche ma incisive parole (“I’m tired of seeing things” che affiora sul finale di “Quorum”, tanto per cominciare), voci che appaiono e scompaiono, che raramente si intrecciano, molti silenzi e ondate di distorsioni violente. Tutto ciò che sul disco è elettronico e disturbante, dal vivo diventa giri di basso, vibrazioni, arpeggi, riverberi, canti e controcanti, percussioni lievi. Sonorosissimi silenzi. È la magia senza tempo dei Low, quella di essere attuali nel 2019 suonando come una band dei ‘90.
Le canzoni del nuovo disco si susseguono con profonda leggerezza (“Dancing and Blood” è un canto primitivo di guerra che raggela tutto, “Always up” è devastante per l’energia che sprigiona), inframezzate da alcuni brani di “C’Mon” e “Ones and Sixies”, fino a una vera e propria progressione shoegaze che spezza in due il concerto e lascia in aria soltanto la chitarra graffiante di “Lazy”: il pubblico segue quel mantra (“Sarah, Sarah, you are lazy…”) e resta in preda a una catarsi per alcuni minuti. Ci si riprende in tempo per l’incredibile finale: prima “Lies”, una canzone che da sola dimostra quella capacità così profondamente umana dei Low di connettere le nostre ferite individuali con quelle del mondo fuori di noi (“Why don’t you tell me what you really want instead of making up the same old lies lies lies”, ma anche “I should be sleeping by your lonely side/instead of working on this song all night”); e poi “Fly” e “Disarray”, che dipingono un paesaggio d’abbandono che lascia senza fiato ma con qualche speranza (“Before it falls into total disarray/you’ll have to learn to live a different way”).
La reprise, che sarà anche l’uscita di scena, è affidata a “Sunflowers”, ballata lirica e surrealista che rischiara un po’ di tenebre e accompagna il pubblico verso l’uscita con la tenerezza dell’indimenticabile refrain che rimarrà a lungo nelle menti di tutti: “I bought some sweet, sweet, sweet, sweet sunflowers and gave them to the night”.
(Emmanuel Di Tommaso)