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“ADHD (is) the worst and the best of me”.
Così recita Loyle Carner in una delle tracce di questo suo secondo disco. Come il precedente, forse anche più, questo album sembra tutto meno che un lavoro concepito da una persona che soffre di ADHD, da cui ci si aspetterebbe un lavoro carico di energia, al limite della nevrosi.
Se, cercando dei riferimenti, è inevitabile pensare a rapper che fanno dello storytelling la loro forza, come Roots Manuva, a venire in mente, scorrendo i testi, è la vulnerabilità nel songwriting tipica di artisti come James Blake.
Loyle Carner va completamente contro alla tendenza di un genere storicamente edonista e megalomane e non flexa, anzi incentra gran parte della scrittura attorno al rapporto con sua madre e alla sua nuova relazione sentimentale.
In tal senso le collaborazioni scelte son perfette e le varie voci scelte si sposano benissimo col mood tenero e malinconico del disco.
Le canzoni sono una delicata collezione di storie, che spaziano da amicizie rovinate dai soldi all’ormai ricorrente tema della mixed-race (“I’m thinking that my great-grandfather could have owned my other one / I’m lost / wondering my cost”).
Se il raccontare così tante battaglie interiori senza sputare rime con veemenza può risultare una novità, lo risulta meno la paletta sonora con il quale il tutto è accompagnato: i beat son quasi tutti dei boom-bap abbastanza minimali ed ogni tanto, soprattutto nei pezzi con gli ospiti, si spazia in un soul piuttosto vintage, per quanto indubbiamente ben fatto e sofisticato nell’utilizzo dei vari giri di chitarra e synth/piano jazzy.
‘Desoleil (Brilliant Corners)’ è un pezzo nostalgico, ma contemporaneamente fiducioso verso un futuro da affrontare con una nuova maturità (“But i’ve changed for the better and I know that / Things don’t look better through a kodak / But somethings look special in a throwback”). Il cantato di Sampha esalta il pezzo, senza sovrastarlo, e va a donargli un ulteriore punta di fragilità, soprattutto nei momenti in cui la sua voce sussurra sgretolandosi.
Uno dei talenti principali di Loyle Carner è proprio quello di riuscire a creare delle canzoni in cui riescano a convivere rap e melodia in modo per nulla forzato ed è il motivo per cui anche le incursioni dei vari Tom Misch, Jorja Smith e Jordan Rakei funzionano in modo così armonioso e sinergico.
In definitiva il disco è un nuovo e, tutto sommato, riuscito capitolo del coming-of-age che è al momento la discografia del 24enne londinese. Resta da chiedersi: è la scena UK che ci sta abituando troppo bene o era davvero lecito aspettarsi qualcosina di più?
72/100
(Carmine D’Amico)