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In “Paris, Lisboa”, secondo disco di Salvador Sobral uscito a fine marzo 2019 per la Warner Music Spain, il cantautore lusitano abbandona quella fusione tra modern-jazz, ritmi latini e bossa nova che aveva caratterizzato l’esordio di “Excuse me”, e si affida interamente a una lettura in chiave jazz-pop di grandi classici come Caetano Veloso, Stevie Wonder e Chet Baker. I testi trovano invece ispirazione in autori quali Fernando Pessoa e Joseph Conrad, riferimenti che aiutano Salvador a dare una forma ancora più consistente all’intimismo della sua musica (da ascoltare a riguardo in particolare l’epica “Cerca del mar”). Aldilà dei tecnicismi, ciò che Salvador è riuscito a mantenere intatto nonostante la celebrità è questa sua capacità innata di cantare a cuore aperto generando una profonda empatia con il pubblico: è una qualità che contraddistingue la sua arte fin dalle prime esperienze di vita e musica a Mallorca, dove durante l’erasmus il nostro formò a una cover band di Chet Baker, Barcellona, Stati Uniti e Lisbona, dalle cui cronache underground apprendiamo di concerti incredibili in luoghi marginali e per pochi intimi in cui Salvador riusciva a dare vita a vere e proprie esperienze mistiche di dialogo profondo con gli spettatori. Interessante in quest’ultimo disco è anche il poliglottismo dimostrato da Salvador, che canta in portoghese, castigliano, inglese e, per la prima volta, anche in francese, attraverso un brano come “La Soufflese” che è un autentico omaggio a “La chanson française”. Come dice Salvador in un’intervista, “a língua é um veículo como outro instrumento qualquer, o verdadeiro idioma é a música”.
“Paris, Lisboa” deve il suo titolo al “Paris, Texas” di Wim Wenders, capolavoro cinematografico del 1984. Come nel film di Wenders, Salvador ci racconta di un viaggio incompiuto, e forse mai iniziato, fra le due città che hanno ispirato questa sua ultima opera. Disco e film condividono un’atmosfera di rinascita luminosa da un tempo profondamente buio attraverso quel tipo di sentimento amoroso che può essere al tempo stesso oasi di rigenerazione e approdo irraggiungibile. Questa è l’aria che tira fin dalla traccia d’apertura “180, 181 (catarse)”, con il suo ritmo iniziale da plotone d’esecuzione che si evolve in un crescendo orchestrale da cui emerge la voce di Salvador mai così contundente: “Há 180 dias a hibernar / Valerá a pena despertar? / A realidade terei de enfrentar”. La malattia cardiaca che lo ha costretto a un trapianto e gli ha quasi stroncato la vita, ha lasciato dei segni indelebili nell’anima di Salvador: la voce è ammantata da una forza inedita che gli consente di guidare con autorevolezza i musicisti lungo traiettorie intricate di melodie jazz e barocchismi incontenibili. Ne sono un esempio soprattutto “Ella disse-me assim”, “Benjamin” e “Mano a mano”, cantata in duetto con António Zambujo. A tratti la voce di Salvador spezza l’andamento dei brani attraverso vocalizzazioni intense in stile opera. Altrove lo sperimentalismo coinvolge la dimensione di dialogo fra cantato e sonoro, come in “Playing with the wind”, elegante sonata a metà fra Brad Mehldau e i Fleet Foxes, e la catartica “Grandes Ilusiones”. Tutto sembra possibile per Salvador in questo disco, perfino trasformare una delle poesie più complesse di Fernando Pessoa in una struggente ballata di voce e piano: è così che “Pressagio” diventa la manifestazione di quanto Salvador consideri la possibilità di esprimersi attraverso la musica come una questione di vita o di morte: “Mas quem sente muito, cala / Quem quer dizer quanto sente / Fica sem alma nem fala / Fica só, inteiramente!”. Il punto più alto del disco è rappresentato da quell’autentico miracolo musicale intitolato “Prometo nao prometer” in cui la sorella Luisa, autrice della canzone e da sempre fonte di ispirazione per il fratello, accompagna Salvador in un duetto sublime di calde voci lusofone che si inseguono fra gli arpeggi di una chitarra fuori da ogni tempo e realtà: “Pede-me que não te beije / pede-me que não te olhe / e por mais difícil que isso possa ser / posso tentar prometer”. Ci troveremmo di fronte a un disco perfetto se non fosse per alcuni passaggi a vuoto nel lato B: canzoni un po’ inconsistenti come “Paris, Tokyo II” e “Anda estragar-me os planos” lascerebbero poco se non fosse per le acrobazie vocali di Salvador e l’ottimo lavoro in cabina di produzione di Joel Silva, capace di assemblare voce e sound esaltando l’atmosfera intimista della musica di Salvador e rendendo indimenticabile l’esperienza dell’ascolto.
Rientrare a casa dopo una giornata estenuante di lavoro. Aprire una finestra e lasciare entrare nelle stanze gli ultimi raggi di sole. Trovare un bicchiere di vino rosso, un divano in cui sprofondare e il disco di Salvador Sobral che avvolge ogni cosa come una tragedia pervasa di leggerezza. Ecco qualcosa che può rendere speciale una giornata qualsiasi.
78/100
(Emmanuel Di Tommaso)