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Vi capita mai di parlare d’amore? Intendo in mente, dentro di voi. Vi capita mai di sostare in quel camerino solitario, backstage di un palcoscenico più grande che è il mondo, perduti in certi ricordi?
Accade in momenti particolari della vita, senza che ci sia una ragione specifica. Tuttavia scopri che ci sono luoghi sulla terra dove l’accesso a quella realtà sommersa diviene più facile e può coglierti un misterioso, spesso struggente, abbandono.
Loving in New York significa amare a New York, una città più volte descritta e filmata, eppure sempre nuova, perché in costante evoluzione; nella fretta della Downtown, nella calma del Central Park, o nell’eccitazione che si diffonde lungo la Broadway, è possibile intravedere mille riflessi di quella follia umanissima che chiamiamo amore.
Non importa se i protagonisti siano tra i milioni di sconosciuti che popolano la metropoli o una coppia celebre: la città elargirà i suoi diamanti a chiunque farà tesoro dei suoi racconti e ogni qual volta parlerai d’amore, farai i conti con essi…
John Cazale fu un guerriero gentile di quel mondo, che ci ha lasciati troppo presto perché potessimo apprezzare a fondo la sua arte, esaurirlo e comprenderlo. Oggi vorremmo rendergli onore evocandone il nome e la storia, perché sono persuasa che, a conoscerlo meglio, rivedremo i suoi cinque film con occhi diversi.
Per allenarci a questo stato emotivo, bisognerebbe poter ballare e cantare, così si dovrebbe vivere ogni giorno, avvisavano all’Actors’ Studio, la famosa scuola per attori della Grande Mela; ma noi ci limiteremo al racconto dei racconti, mettendo il tono sentimentale in primo piano.
Ebbene, Cazale, con quel suo viso inconfondibile, la fronte ampia, accentuata dall’alta stempiatura, il naso importante di taglio obliquo e quegli occhi così intensi, così espressivi; dopo averlo osservato in tanti ruoli controversi, potreste concordare con Al Pacino:
“John aveva quella capacità di penetrare le cose che non sapevi mai quando iniziava e quando finiva la recitazione con lui. Ci portava in un posto in cui veramente parlavamo tra noi di dolore, di cose che erano davvero lì, davvero in noi, era un processo… Non posso neanche chiamarla improvvisazione. John è cresciuto nel suo ruolo, è diventato sempre di più, e non si è mai fermato, era infinito. Questo è quello che mi ha insegnato. Era il mio compagno di recitazione ideale, avrei voluto recitare con lui sempre, per tutta la vita“.
New York, 1976: Meryl lavora in una libreria per sbarcare il lunario, segue i corsi dell’Actors’ studio e, mentre si impegna per dare al cinema tutta sé stessa, sente arrivare al cuore qualcosa di speciale.
Il suo amore per John.
Parlare di un sentimento tanto intimo sembra un equilibrismo del pensiero, sopratutto a proposito di un’attrice di cui tanto si è scritto e parlato. Come estrapolare dai fatti nudi tutta la poesia? Senza contare la distanza storica, mentre l’amore appartiene sempre al presente.
Quei giorni di cui narriamo splendevano della stessa luce che emana tutta la gente quando si attrae, si entusiasma, si innamora, ma negli occhi di chi ne sia partecipe, scopriamo qualcosa di diverso che cambia radicalmente tutto.
Mia madre una volta disse che i veri amori sono quelli impossibili, perché il sentimento rimane inalterato solo se non deve passare attraverso la prova del tempo: gli affanni che opacizzano tutto, il quotidiano che ribalta le prospettive…
Quando John morì, aveva solo 42 anni, troppo presto perché la storia che stava vivendo con l’attrice Meryl Streep potesse dirsi vissuta completamente.
A ben guardare, alcuni sentimenti d’amore non appartengono al mondo come lo conosciamo, non sono suggellati da baci, dalla sensualità esasperata, di cui ci rammentiamo sempre con stupore, ma si perpetuano nei gesti, nelle azioni quotidiane, che allora ci erano apparse consuete, ma che riesaminate alla moviola della memoria, appaiono perfette.
Autunno, sullo sfondo di New York c’è il parco, le foglie secche sui viali, lo scricchiolare leggero delle suole sul selciato e un’altra mano, stretta saldamente nella tua, che comunica direttamente col cuore.
Sarà stato così anche per i protagonisti della nostra storia, giovani amanti alle soglie di grandi, meritati successi?
Seduti ad un tavolino di un coffee shop, ci sembra di scorgerli attraverso una vetrina: lo sguardo di lei pieno di tenerezza, gli occhi dell’altro che indagano, pronti a difendere fino alla fine quella passione. E poi le labbra screpolate di Meryl, come le descrive il biografo Michael Schulman.
“Erano splendidi da guardare perché erano buffi, diversi dagli altri… belli a modo loro, erano una di quelle coppie che per strada ti giri a guardare, non perché fossero incredibilmente belli, ma perché erano loro due” (Israel Horowitz)
Lei si era trasferita a casa di John. Spesso pranzavano a Little Italy ed erano così simpatici che il proprietario del locale finiva per non far pagare loro il conto.
E poi le biblioteche, i libri condivisi, le lunghe discussioni, le prove sui palchi off in estate o sdraiati sul prato del Central Park, all’ombra di quegli alberi che si dice crescano più velocemente che in qualsiasi altro luogo della terra. Fino ai primi geli, alle passeggiate avvolti nelle lunghe sciarpe durante i rigidi inverni newyorkesi, senza parlare, immersi in silenzi ricchi di sospesi, di intenzioni, di complicità.
Forse Meryl avrà lottato per conservare ogni frammento di quegli attimi, per far sì che fossero alleati della sua vita dopo John:
La morte è ancora con me. Mi ha costretto a fare i conti con la nostra fragilità, e una volta fatto questo, tutte le cose appaiono in modo diverso.
John Cazale aveva 14 anni più di Meryl ed era eccezionalmente sensibile, uno spirito pieno di inventiva, di sagacia, di gusto per il suo ruolo di attore.
Dopo aver lavorato in teatro dal 1959, era salito alla ribalta grazie al ruolo di Fredo ne Il padrino di Francis Ford Coppola, per poi interpretare ancora lo stesso personaggio ne Il padrino parte seconda. La battuta rivoltagli da Al Pacino nel film: So che fosti tu, diverrà il titolo del documentario-tributo a John Cazale uscito nel 2006 (I know it was you).
Alchimie.
Coppola lo vorrà ancora ne La conversazione, accanto a Gene Hackman. E poi lavorerà di nuovo con il suo amico di gioventù in Quel pomeriggio di un giorno da cani, perché il regista Sidney Lumet cedette alla richiesta di Pacino: non avrebbe recitato se accanto non avesse avuto Cazale. Fino a Il cacciatore di Michael Cimino, del 1978, con l’amico Robert De Niro e la stessa Meryl nel cast.
Osservandone il volto mentre impersona l’uno o l’altro dei suoi antieroi, in film che furono tutti nominati o meritevoli di Oscar, potreste avere l’impressione che Cazale non stia recitando affatto, ma che abbia trasfuso sé stesso per approfondire il personaggio.
Parlava pianissimo, quasi sussurando, nonostante controllasse la portanza vocale e fosse abilissimo nel modularla; ma nella vita di tutti i giorni era chiaro quanto non sopportasse il suono della propria voce. Eppure il suo timbro era piacevole, vibrante, e possedeva curve morbide. Meryl non avrebbe mai scoperto il motivo di quell’avversione.
Quando si incontrarono la prima volta, durante le prove di una rassegna –Shakespeare in the park– nel 1976, John divenne incredibilmente loquace e non smise di parlare di lei con tutti, per giorni; la soprannominò delizioso robotino, perché lo stupiva che riuscisse a replicare, senza scomporsi, lo stesso repertorio, con la medesima intensità.
Per inciso, questo la rendeva straordinaria agli occhi dei registi, abituati al fatto che gli attori perdessero di efficacia nel ripetere la stessa battuta.
Come ricordò Meryl al the Guardian: “John thought I acted perfectly but without the least feeeling“.
Non assomigliava a nessuno che avessi conosciuto, avrebbe aggiunto, la sua peculiarità era una sorta di umanità, curiosità, miste a compassione.
Alla Streep attrice, una volta venne attribuito un certo aplomb, “come se fosse diretta discendente degli eroi del Boston Tea party”.
Si trattò di una cattiveria gratuita. Come spesso accade a chi sia professionalmente impegnato, serio e così pieno di talento da non lasciare indifferenti. Una volta discussi per cinque ore di fila con l’allora direttore generale della produzione di Cinecittà Studios, a proposito di una scena interpretata dalla Streep. Si trattava de I ponti di Madison County, quando la protagonista rinuncia ad aprire lo sportello dell’auto per inseguire il suo amore. Se vi capiterà di ascoltarla in lingua originale, scoprirete quante emozioni possa suscitare un suo sospiro. Quante donne avranno ripensato a quella sequenza, nel momento di decidere della loro vita. Io sì, e voi? Avete abbassato la maniglia o no?
Come tutti i grandi amori, anche quello tra John e Meryl, ebbe due linee di lettura, costruite sugli intrecci dei diari segreti dei protagonisti, di cui non sapremo mai abbastanza.
La distruzione di un corpo e il farsi strada dello spirito durante la malattia, il sarcasmo della mente lucida, la tensione erotica prima dell’abbandono di chi ami, il dato sensuale che lega alla terra e poi quel che si potrebbe intuire dal labbro increspato di John e dalla malinconia dei suoi occhi: quella forma raffinata e desolata di rischio, di autocondanna, di perdizione…
Nel 1977 ebbe un malore mentre recitava a teatro e si decise a farsi visitare: l’esito fu raggelante. Cancro ai polmoni, già diffuso a tutto il corpo.
Ad accompagnarlo c’era Meryl ed il suo mentore e produttore, Joe Papp con la moglie. Per alcuni minuti nessuno parlò.
Poi Meryl chiese: “Dove andiamo a cena?“.
Da allora, racconta Schulman, lei se ne prese cura in ogni modo, senza mai mentirgli, facendogli coraggio; accettò anche un lavoro in Germania per pagare le sue cure e prese parte al film il Cacciatore, per assisterlo sul set. Consigliò il regista affinché girasse prima le scene con Cazale, perché nessuno sapeva quanto tempo avesse ancora da vivere, e poi combatté la produzione che, venuta a conoscenza della malattia, voleva interrompere il contratto; infine accettò che Robert De Niro si accollasse parte delle spese per le cure, mentre Al Pacino lo accompagnò alle prime sedute di chemio. Poi John divenne troppo debole per uscire e Meryl si chiuse in casa con lui, dedicandogli tutta sé stessa.
A marzo peggiorò e dovette farlo ricoverare. Non c’erano più speranze e lei aveva smesso di mostrarsi forte, era appoggiata con la testa sul petto di lui e singhiozzava. Fu allora che John aprì gli occhi un’ultima volta e disse: “Va tutto bene“. Era il pomeriggio del 12 marzo 1978, verso le 15 ripeté: “Va tutto bene, Meryl”.
Una volta un critico, Jean Pierre Frankenhuius, scrisse di lui: “Una rivoluzione che non potrà essere dimenticata, un attore di prim’ordine, un’interpretazione toccante, stupenda, ilare”
Oggi il nome di John Cazale lo ricordano in pochi.
Se ne andò agli albori del cinema contemporaneo, l’epoca di interpreti come Al Pacino, De Niro, Dustin Hoffman e di grandi registi, come Coppola, Michael Cimino, Mike Nichols, Sydney Pollac, Alan J. Pakula.
Condivido con Meryl una curiosa abitudine: sin da bambina colleziono ricordi dentro delle scatole di cartone. Foto, piume, nastri, poesie, conchiglie e pietre. Poco più che molliche di pane e sassolini per non perdere il sentiero di quell’esistenza parallela, continuo stordimento tra presente, passato, memoria e fantasia, tipico della vita di un attore o di uno scrittore…
Meryl possiede una scatola speciale, color pastello. Lei sostiene che sia il più bel regalo che le abbiano mai fatto. Quando il suo amato morì, si ricordò di come lui vi avesse riposto i loro sogni: era piena di bigliettini, di copioni, di foglie con pensieri evidenziati a matita, la trama di un amore intessuta finemente, dove c’erano tutte le loro speranze, il loro desiderio, la passione, la reciproca condivisione delle esperienze che la vita aveva donato loro.
Una volta fui sul punto di fidanzarmi con un violinista di strada, lui studiava legge alla Columbia, ma abitava con due ragazze a Brooklyn; in inglese to be engaged è simile ad una promessa di matrimonio e quando mi propose di andare a trovare i suoi genitori, nel New Jersey, fuggii via.
Posseggo una vecchia radio a valvole incorniciata di specchietti, venne acquistata nella Big Apple da un innamorato Jean Paul a spasso per la Fifth con la sua bella; quando Laura me la regalò, capii che con essa voleva liberarsi del dolore di quel ricordo…
Da ragazza ero stata innamorata di un attore, Bill Murray, e forse non attesi abbastanza in quel bar della Quinta Strada dove avrei potuto incontrarlo.
New York racchiude molte storie: una di queste ho tentato di raccontarla, in un dialogo ininterrotto con i personaggi della mia memoria.
Ma se pensate che possa aver concluso, v’ingannate.
Andate a New York, passeggiate per quei viali del Central Park o ai Palisades.
La città vi racconterà tante storie, forse accenderà in voi una qualche forma di amore: sconvolgente, erotico, indimenticabile.
Potrebbe appartenervi più di qualunque altro abbiate mai vissuto prima…
(Jo Gabel)
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