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Diario 18 maggio 2019
Si possono fare le ore piccole a un festival, sommersi da nuovi film presentati in anteprima mondiale, per rivedere un film che si conosce a memoria? Ovviamente sì, per lo meno se quel film è Shining di Stanley Kubrick. Al di là di questo va detto che la copia che è stata presentata tra gli eventi speciali di Cannes Classics – la sezione che si occupa di programmare il cinema del passato, e che di fatto sostituisce una retrospettiva vera e propria – aveva anche una sua pecualiarità: si trattava infatti della versione “americana”, che come forse è noto dura quasi mezz’ora in più rispetto a quella tradizionalmente trasmessa in Europa. Se siete lì a pensare “oddio, cosa mi sarò mai perso!” potete dormire sogni tranquilli: per quanto il film resti un capolavoro inattaccabile, è giusto precisare come la versione europea sia di gran lunga migliore. Più compatta. Più coerente. Più paurosa. Le scene che furono eliminate – meglio chiarire le cose: per volere di Stanley Kubrick, eh! – non aggiungono nulla di concreto al mood del film, e in alcuni casi arrivano addirittura ad anticipare in modo troppo plateale dettagli che sarebbe preferibile scoprire in un secondo momento. La sala ovviamente era gremita in ogni ordine di posti e il pubblico ha accolto i titoli di coda con veri e propri boati di soddisfazione. Ma su questo ci mancherebbe altro!
È stata una giornata attraversata dall’horror in lungo e in largo. La mattina avevo infatti recuperato Atlantique, il film di Mati Diop che avevo perso – per colpa dell’organizzazione del Festival – alla proiezione stampa. La regista senegalese, nipote del grande Djibril Diop Mambéty (tra i più importanti cineasti della storia del cinema panafricano), sfrutta l’escamotage dei djinn, i demoni ritornanti della tradizione araba, per entrare con la lama nella carne molle della questione politica relativa ai migranti. Senza mai uscire dalla terra senegalese, e mostrando le colpe anche dei senegalesi benestanti che affossano ulteriormente le vite delle classi subalterne, Diop firma un’opera ambiziosa, non completamente ispirata e a tratti farraginosa e un po’ semplicistica, ma non priva di talento. Un film zoppicante, e in cui il genere poteva essere sfruttato con maggior forza espressiva, ma anche un nome da tenere d’occhio.
Si occupa invece di zombi, per mostrare il volto più sgradevole di una Francia che ama tanto riempirsi la bocca del termine rivoluzione salvo poi smentirlo quotidianamente nei fatti, il nuovo film di quel Bertrand Bonello che tre anni fa si vide sbattere le porte in faccia da tutte le sezioni del festival per il suo ottimo Nocturama. Con maggior fortuna Zombi Child è invece approdato alla Quinzaine des Réalisateurs: racconto duplice – da un lato ciò che accadde a un uomo ridotto allo stato di zombi ad Haiti nel 1962, dall’altro la vita di una classe di ragazze adolescenti in una scuola parigina d’alto livello riservata solo alle figlie o alle nipoti di chi ha ottenuto la Legion d’Onore – Zombi Child parte in un modo splendido, grazie anche all’elegante regia di Bonello, salvo afflosciarsi dopo la prima metà, disperdendo gran parte del suo potenziale. Peccato.
Non disperde invece proprio nulla Takashi Miike, eroe del cinema popolare e d’autore nipponico che con First Love, sempre alla Quinzaine, sfodera una delle sue migliori creature dell’ultimo decennio. Un viaggio rutilante nella notte di Tokyo, noir violentissimo e non privo di dolcezze e d’ironia, con due ragazzi che devono sfuggire alle grinfie di tutti i criminali della città. Quindi praticamente di chiunque. Inventivo e anarchico, politico e divertentissimo, First Love è finora il miglior film visto durante quest’edizione del Festival.
Diario 19 maggio 2019
Mentre il sole è diventato sempre più un miraggio, con nuvoloni densi e neri che sovrastano la città e deprimono anche gli spiriti più avventurosi, il Festival è entrato nel pieno regime del suo ritmo, con un programma sempre più fitto – e un bel po’ delirante, mettere insieme degli incroci sta diventando un’impresa improba – e una fiumana di gente in fila per qualsiasi sala. Dopo aver deciso scientemente di non vedere Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar, che tanto è già stato distribuito in Italia e potrò trovare al cinema anche al mio ritorno, tra una settimana, mi sono concentrato su Un certain regard e su Jeanne, il nuovo film di Bruno Dumont che si collega per linea diretta al precedente, Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc. In questa seconda parte della vita di Giovanna d’Arco Dumont parte dal fallimentare assedio di Parigi e arriva fino al rogo in cui la Pulzella d’Orléans bruciò dopo essere stata condannata per eresia. Chi ha memoria di queste cronache festivaliere ricorderà (eufemismo) le parole che usai nel diario del 24 maggio 2017: “un folle atto di eresia consapevole”. Ecco, Jeanne prosegue sulla stessa linea di galleggiamento, visionario e asciugato fino all’osso, comico suo malgrado – ma volontariamente, come testimoniano i passaggi “spastici” rispetto alla prassi del racconto – e in grado di ragionare sulla cultura francese, sulla dialettica (im)possibile con il Potere, sul concetto di fede e di difesa del proprio pensiero. Il fatto poi che la ventenne Giovanna d’Arco sia interpretata da una bambina di dieci anni (Lise Leplat Prudhomme, era lei anche nel primo capitolo) aggiunge depistaggio a depistaggio. In Italia ovviamente si farà fatica a vederlo, ma non credo che qualcuno si possa sorprendere a riguardo.
Molti hanno storto la bocca e urlato improperi contro Liberté di Albert Serra, a sua volta presentato in Un certain regard. Difficile non comprenderne i motivi: un film lentissimo, ostico e che punta sul disgusto. In che modo? Mostrando una notte di libertinaggio nel folto della foresta germanica durante il Diciottesimo Secolo, quello dei Lumi. La notte è però illuminata solo dagli umori spermatici ed escrementizi di questi uomini e queste donne che tra sadismo e masochismo si lasciano alle spalle qualsiasi retaggio aristocratico. In questo scenario ripetitivo – e che ha portato molti spettatori ad abbandonare la sala, per quanto sui titoli di coda non siano mancati convinti applausi – Serra cela anche il motivo politico del suo nuovo film, riflessione sull’ipocrisia aristocratica, sulla sua decadenza ma anche sulla corruzione in essere della neonata classe borghese, con l’invenzione, si fa per dire, del capitalismo. Un lavoro davvero ostico, ma che non lascia indifferenti e conferma la statura autoriale di un regista che non fa mai nulla per andare incontro allo spettatore. Si può detestare, ovviamente, ma sarebbe sciocco e improduttivo snobbare un film così in grado di smuovere ragionamenti.
Ancor più teorico, ma in realtà perfettamente capace di intrattenere nel senso più puro del termine è invece La Gomera, con cui il rumeno Corneliu Porumboiu a tredici anni dal suo debutto riesce finalmente a partecipare al concorso principale di Cannes. E lo fa con quello che è forse il suo lavoro più compiuto. Divertentissimo noir che prende spunto da un metodo di linguaggio a dir poco bizzarro in uso tra i pastori dell’isola de La Gomera, nelle Canarie, e basato interamente sui fischi, La Gomera è in realtà una riflessione sui codici del linguaggio, sulla dialettica fertile e spesso non compresa tra linguaggio visuale, sonoro e verbale. In questa triplice intesa si racchiude il senso di un film stordente, che lascia senza fiato e costringe lo spettatore a riflettere “suo malgrado”. Meriterebbe la Palma d’Oro fin d’ora, per la rarissima dote di saper coniugare teoria e narrazione popolare, e invece parte consistente della stampa ha sbuffato. Si ricrederanno?
(Raffaele Meale)