Share This Article
Dopo tre giorni è chiaro a tutti che per affrontare questa edizione del Festival senza esserne sopraffatti, e senza farsi venire troppe paturnie è indispensabile possedere un animo fortemente ispirato dallo zen. La guerra mai dichiarata ma sotterranea nei confronti della stampa portata avanti negli ultimi anni dal delegato generale Thierry Frémaux si sta tramutando, ora ch’è palesata, in un pastrocchio fatto e finito. Ad esempio una parte consistente degli accreditati non è riuscita a entrare in sala per vedere Atlantique, l’opera prima di Mati Diop presentata in concorso. Il motivo è presto detto: la sala Bazin, abbastanza piccola, è stata interamente occupata dagli accrediti di livello più alto, lasciando fuori quasi tutti i blu (categoria cui appartiene anche il sottoscritto) e tutti i gialli. D’altro canto il Grand Théâtre Lumière, la seconda sala a disposizione della stampa per questa proiezione, era occupato per lo più dagli inviti e dalla delegazione del film. L’unico risultato è che la copertura stampa sarà relativa, e che molti di noi – ivi compreso sempre il sottoscritto – saranno costretti a un’alzataccia per recuperarlo all’ultimo momento disponibile. Davvero complimenti vivissimi all’organizzazione!
Detto ciò passiamo ai film della giornata, all’insegna della lotta operaia e della riflessione sul mercato del lavoro in un sistema del Capitale sempre più folle e impazzito. In mattinata alla Quinzaine des réalisateurs è stato presentato On va tout péter, nuovo documentario di quell’eretico di Lech Kowalski, statunitense di origine polacca nato a Londra: un viaggio nella lotta degli operai di una fabbrica francese che rischiano di perdere il posto di lavoro per colpa del sistema, ancora più vessati da quel falsissimo mito della sinistra europea che è il macronismo. Kowalski compie una scelta forte, sposando la causa operaia ma senza mai dimenticare il ruolo dialettico del cinema, e l’etica indispensabile nel lavorare le immagini. Una lezione di cinema, di politica, di senso della messa in scena, in una riflessione che parte sulla possibilità o meno di dare il la a una rivoluzione, e rovesciare un sistema iniquo. La giornata così iniziata si è conclusa con la visione di Sorry We Missed You, il ventiseiesimo film da regista di Ken Loach. Con il rigore politico riflesso nella scarnificazione delle immagini che da sempre contraddistingue il suo cinema, Loach accompagnato dal fido Paul Laverty alla sceneggiatura si lancia nel racconto di una famiglia proletaria di Newcastle, e di come gli equilibri possano essere messi a rischio da un mondo del lavoro dai ritmi forsennati, inumani, scabrosi nella loro evidente ingiustizia sociale. Un lavoro sottile e potente, tra i parti creativi più felici dell’ultima stagione del regista britannico. E sui titoli di coda, così come per Kowalski, viene naturale alzare il pugno chiuso in aria, in gesto di compartecipazione, e di resistenza. Politica e umana.
(Raffaele Meale)