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Se pensiamo al rock strumentale anni ’60 l’immagine che istintivamente ci viene in mente è quella di spiagge californiane assolate piene di surfisti e ragazze in bikini. È improbabile che la nostra collocazione mentale finisca in qualche paese dell’Europa dell’est, in Russia, in Cecoslovacchia o in Romania. È invece in questo mondo sconosciuto che vogliono portarci i due volumi intitolati “Surfbeat Behind The Iron Curtain” editi tra il 1997 e il 1999 dalla BOMP-AIP records.
In ognuno dei brani proposti troviamo squillanti melodie chitarristiche sulla falsariga degli Shadows e scatenati ritmi twist, il tutto pervaso da una certa malinconia che è tipica della musica popolare di quei luoghi e in definitiva è proprio questo a renderla così unica. La sola “Pe Linga Plopii Fara Sot” (rielaborazione in chiave surf -beat di un tristissimo canto tradizionale) dei rumeni Sincron che apre il primo volume della raccolta basterebbe a giustificarne l’acquisto. È proprio quando la contaminazione tra tradizione e influenza esterna si fa più evidente che troviamo i momenti migliori: la “Puszta Beat“ del Theo Shuman Combo (DDR), che gioca con la polka, l’evocativa “The West Wind” dei polacchi Tajfuny o il bizzarro non-sense della “Lucifer In Coelis” della cecoslovacca Slava Kunst Orchestra.
Ad essere pignoli c’è da notare che non tutta la musica proposta viene al di là della cortina di ferro. C’è qualche incursione anche nella Germania Ovest, in Olanda, nella nostra Italia (con gli oscuri Constallation) e una toccata e fuga persino in Giappone con un omaggio al chitarrista Takeshi Terauchi, vera celebrità delle sei corde in patria. Si può aggiungere che all’ascolto dei due album si accompagna bene il libro “Rock oltre Cortina” di Alessandro Pomponi – che nel sottotitolo recita “Beat, prog, psichedelia e altro nei paesi del blocco comunista 1963-1978“ – il quale compie un’ottima analisi del contesto storico e socio-culturale dove queste band operavano.
Il rock non era ben visto dai regimi dell’est in piena guerra fredda, in quanto portatore di visioni del mondo occidentali considerate ostili.
Rimanendo in qualche modo al riparo da testi facilmente contestabili si poteva godere di maggiori libertà. Da qui il piccolo boom di band strumentali che quest’opera fotografa.
Band che finivano per fare, come recita il vecchio adagio, “di necessità virtù”.
(Eulalia Cambria)