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Quando mi hanno proposto di scrivere qualche pagina su Mondo Sounds Festival (San Vito Lo Capo, Trapani dal 28 al 30 giugno) francamente non sapevo da dove cominciare. Non ho mai provato a fare un lavoro specifico tematico su un evento, sebbene a partire dai festival di musica psichedelici, questi (se centrati e lontani da logiche massive tipo Primavera Sound) mi piacciano molto. Però l’idea di un festival tutto italiano dedicato ai “sud del mondo” mi piaceva. Perché comunque intanto non è un festival dedicato al “sud” e con ripetizione di cliché tipo la festa della taranta ecc. ecc. oppure quel carattere folkloristico tipo sagra paesana di massa. Secondariamente perché “sud del mondo” significa un po’ “tutto il mondo” e comunque il carattere “afrocentrico” riconosce quel pluralismo di cultura mondiale che ha costituito, costituisce e costituirà nel futuro in maniera sempre più potente quello che negli anni sessanta si cantava come “continente nero”.
Aggiungo: abitando in una grande città sul Mare Mediterraneo (forse la più grande) e pensando a un tema come quello dei rapporti tra l’Europa e l’Africa, che è per forza centrale nel dibattito politico, questo tema sento che mi tocchi da vicino. Ma al contrario che quello che si dice sulla propaganda che svilisce i migranti, umilia e discrimina le persone, considero la cosa una grandissima opportunità. Del resto la rinascita, ma come la nascita stessa, può avvenire solo tramite un incontro. E un incontro è fatto da dare e ricevere. Per questo non credo al mito del turismo, ma credo invece alle persone che si spostano. La natura dell’uomo non è territoriale, questo è un falso mito: l’uomo non ha mai smesso di migrare e di spostarsi sin dalle origini. Ci sembra che questo abbia smesso di farlo perché ci sembra di esserci adesso “consolidati”, ma i termini temporali su cui facciamo queste considerazioni sono veramente molto bravi se paragonati alla lunghezza della nostra storia. Ma mettersi faccia a faccia con se stessi e con la propria natura è una cosa che spaventa, la territorialità in fondo significa paura, ma paura di affrontare se stessi prima che il prossimo.
Quindi veniamo a una componente spirituale che è veramente determinante nella natura dell’uomo e che credo costituisca un’altra peculiarità molto prepotente e predominante della nostra specie sul resto del mondo animale.
Un carattere che si sviluppa in maniera fortissima in realtà musicali che sono spesso lontane da quelle occidentali, che sono lontane da questo tipo di visione, perché forse ne sono proprio spaventate in virtù di quella richiamata territorialità, e che non a caso invece possiamo ritrovare in dimensioni legate al mondo asiatico, ma soprattutto a quello “africano”. Intendendo questo termine nel senso più ampio possibile. Perché negare che il sound cubano e tropicale e tutto quello sudamericano (dalla cumbia in poi) e in questo festival vi troviamo diverse esperienze legate a questo sound (pure italiane) siano connessi strettamente al mondo africano sarebbe come negare le radici del blues.
E qui non faccio negazionismo, ma riconosco ad esempio la grandezza di un artista come Dele Sosimi, il nome di punta del festival, senza nulla togliere agli altri (be’, un nome come quello di Claudio Coccoluto è sicuramente “massivo” sul piano della popolarità).
Chi è Dele Sosimi? Fondamentalmente uno dei musicisti storici e principali agitatori della scena afrobeat dalla fine degli anni settanta ad oggi. Nato in Inghilterrra da immigrati nigeriani, entra a far parte degli Egypt 80 di Fela Kuti (come dicevo, il carattere spirituale è centrale nella sua dimensione intellettuale e di introspezione sul piano artistico), poi collabora con il figlio Femi come tastierista e direttore artistico. Fondamentalmente è l’uomo che tiene unite le reedini del gioco sul piano degli arrangiamenti e della produzione a tutti i livelli e pure per quello che riguarda strutturare la band. Poi sviluppa la sua carriera per lo più da solista oppure performer e con partnership importanti come quella con Tony Allen, uno che pure ha dato molto al movimento pure non essendo esattamente africano. Ma che importa.
Sosimi oggi vive a Londra e si presenterà al festival con la sua Afrobeat Orchestra. Immagino sarà una esibizione particolarmente colorata perché è composta da una quindicina di musicisti di solito, tra cui una ampia sezione di fiati e ballerini. Ma staremo a vedere, perché francamente è un personaggio poco prevedibile, un musicista scafato e un performer incredibile e anche una specie di istrione.
In circolazione sin dalla fine degli anni settanta, Dele Sosimi definisce la sua carriera come solista a partire dal 2002 con “Turbulent Times” (Eko Star Music, 2002), album che produce lui stesso in collaborazione con il suo bassista Femi Elias, che firma con lui anche la maggior parte delle tracce. Ispirato chiaramente alla matrice afro-beat, l’album è effettivamente una scatenata serie di sei lunghe sessioni di jazz che mescola sonorità calde afro e accenni di tropicalismo da big band, con impetuose batterie di fiati, un groove incredibile di basso, cambi di tempo improvvisi, con generi come il fusion.
Il “tocco” di Sosimi è chiaramente ispirato a un genere come il fusion, ma ha uno stile peculiare: del suo complesso lui è una guida fondamentale, soprattutto è quello che è un autentico performer. Consapevole di avere una squadra rodata e capace alle spalle, non ha bisogno di guidarla dettando uno schema predefinito. Plastico, imprevedibile, dà allo strumento un ruolo flessibile tipico del genere fusion e questo in particolare nelle parti che non sono cantate, che sono bilanciate con quelle sono strumentali, in un formato che non pretende di essere esclusivo in nessuno dei due sensi.
“Identity” (Helico Records, 2007) è un disco ugualmente potente. Dele Sosimi dimostra di non avere nessuna paura nel confermare il suo stile compositivo. Del tutto incurante di quele che sono le regole radiofoniche e della forma canzone si scatena letteralmente in lunghe sessioni indemoniante di afro-beat e fusion con pezzi assolutamente travolgenti come “Local Champion”, “Ya Hand”. Il risultato è appagante, la lunghezza dei pezzi invece che scoraggiare l’ascoltatore, dà quel senso di continuità e di performance totalizzante che coinvolge in maniera totale, svolgendo un rituale antico di possessione e allo stesso tempo di presa parte a qualche cosa di più ampio nel senso espressamente “comunitario”. Arrivano pure alla fine qualche pezzo che ci fa pensare alla musica afro-americana e esperienze neo-soul, roba tipo Motown, come nel caso di “E Just Dey Go”, che pretendono una dimensione internazionale, che ci sta tutta.
“You No Fit Touch Am” (Wah Wah 45s, 2015) si distingue per una certa varietà nei suoni e in cui sviluppa e declina la matrice afro in diversi format. Riconoscibilissimo lo stile in pezzi come “E Go Betta”, un carattere che si può considerare come suo “standard”, il disco procede con pezzi che effettivamente rimandano alla matrice Kuti, sviluppata poi anche in particolare dal secondo figlio del mito Fela, cioè Sean (che poi ha ereditato in effetti il complesso Egypt 80), anche nei temi politici e nel ruolo della voce e del testo, che assume una centralità non sempre frequente nelle sue composizioni. “You No Fit Touch Am” ha un sound e un groove che vanno oltre il genere “afro”, è un pezzo ballabilissimo, ammiccante, ricco di fioriture di cori e di fiati, i tipici stacchi fusion che incentivano uno stato di trance allegorica (in “I Dont’ Care” è fondamentale il riff di chitarra, che batte dall’inizio alla fine, accompagnando l’impazzire dei fiati) sia per gli ascoltatori che per i musicisti in una comunione collettiva; “Where We Want Be”, “We Siddon We Dey Look” si allineano al format Kuti già richiamato. In definitiva forse non è un disco particolarmente forte sul piano dei suoni, ma colorato, particolare, vario e ricco di contenuti.
Non a caso un anno dopo, sempre su Wah Wah 45s, esce una versione remix in un format dub realizzata con Prince Fatty & Nostalgia 77, pubblicazione che ha una dignità tutta sua e che aumenta uno stato di trance che poi sta alla base della musica dub, grattando i suoni, spingendo forte sui bassi, riverberi, eco soniche. Una macumba elettronica.
Un tipo di approccio che comunque Sosimi riprende spesso, dando un senso più ampio alla sua visione della musica come rito collettivo. Pubblicazioni come “Wahala Identity Mix” (dedicato ovviamente all’album “principale”, cioè “Identity”) e uscito nel 2009 e particolarmente suggerito nel set ampio di uscite di questo tipo.
Ultima del lotto comunque è “Cubafrobeat” in partnershp con Lokkhi Terra e dedicata, come si evince facilmente, a quella matrice afro ripresa poi nel tropicalismo e che contagia in maniera pesante la musica dei paesi dell’area del Centro America, a partire proprio da Cuba, inevitabilmente per ragioni politiche, uno dei centri di principale sviluppo e identità culturale nel secolo precedente. Il disco è uscito l’anno scorso per la Optimal Media GmbH e si compone di sole quattro tracce, ma ognuna di queste sfora tranquillamente i dieci minuti.
Dele Sosimi è quindi un performer prima ancora che un compositore, è un musicista che ha una visione d’insieme del suo approccio alla musica e non si preoccupa di sviluppare i suoi pezzi secondo una forma canzone predefinita. Questo fa di lui forse un idealista, forse una specie di truffatore, nel senso che non gliene frega nulla di regalare al pubblico qualche cosa che questo possa aspettarsi. Ma i truffatori ci piacciono, così come le cose imprevedibili, odio quella inutilità tipica della maggior parte degli eventi, dove sai già dove e quando si vuole andare a finire. Qui invece no, vi ritroviamo quell’approccio cosmico che avvicina la musica afro in maniera ideologica a esperienze sperimentali “occidentali” come il kraut-rock e la musica minimalista, ma con una componente spirituale più marcata e un coinvolgimento sul piano della emotività che pretende di essere diverso e che guarda più al futuro di suoni maggiormente d’avanguardia perché propone un atteggiamento ottimistico, mette in campo degli argomenti e lo fa in maniera entusiasmante, regala quegli “ideali” che fanno da richiamo e l’attrazione resta sempre un tema fondamentale all’interno della nostra società a tutti i livelli e ha un carattere che supera il folklore e l’intrattenimento perché è ideologica, visione d’insieme. Quello che può significare “world music” e che infatti va oltre rappresentazioni raffazzonate di un insieme di tradizioni che avevano un carattere esorcistico di esperienze come la fame, la miseria e il senso di isolamento in una specie di ripetizione di riti pagani e che oggi sono la parodia di una società decadente e che si vuole riproporre come esperienza ripetuta nel tempo, ma qui invece le robuste radici della musica nigeriana e dell’afro-beat, mostrano tutto il loro vigore e si estendono in orizzontale, raccogliendo quante più adesioni sia possibile in una maniera inclusiva e che va oltre la territorialità e si diffonde allargando a dismisura corridoi stretti tra un paese e l’altro.
(Emiliano D’Aniello)