Share This Article
È passato molto tempo da quando Louis Armstrong durante una seduta di registrazione chiese al percussionista Lionel Hampton di unirsi alla band per suonare il vibrafono. Eravamo negli anni ‘30 e quel momento sancì l’inizio della storia del vibrafono come strumento jazz. Una storia minore se paragonata ad altri strumenti, sia per il limitato numero di musicisti dediti al vibrafono che per le caratteristiche tipiche di questo strumento, che sembra essere destinato a rimanere sullo sfondo e nella mera funzione di fornire la base musicale. Ci vuole una forte personalità e un talento puro per elevare in primo piano uno strumento di tali caratteristiche, ed è per questo che la storia jazz del vibrafono è costellata di grandi musicisti: da Lionel Hampton, che, come si diceva, ha portato il vibrafono nel jazz, alla svolta bop di Milt Jackson e a quella fusion di Gary Burton, fino ad arrivare ai contemporanei Bobby Hutcherson e Stefon Harris. Immaginiamo che la casa newyorkese di Joel Ross sia tappezzata dai poster di questi miti del vibrafono. Il 23enne vibrafonista nato a Chicago si è guadagnato in breve tempo la fama di astro nascente della jazz-scene di New York grazie al ruolo di sideman ricoperto in alcuni dei dischi jazz più interessanti usciti di recente (segnaliamo in particolare: “Universal Beings” del batterista Makaya McCraven, “Flight” di James Francies e “Modern Flows Vol. 2” di Marquis Hill), fino ad approdare alla leggendaria Blue Note Records, che ha pubblicato il suo disco d’esordio come band leader dal titolo “KingMaker”.
L’importanza di questo disco nasce dalla consapevolezza in Ross del percorso artistico intrapreso (come ha dichiarato recentemente durante un’intervista alla sua etichetta discografica: “I never had a doubt that I was going to do music. My whole life it was just about finding a way to do it”) e dalla capacità, molto rara nei jazzisti, di farsi da parte e lasciare i giusti tempi e spazi agli altri musicisti della band: il vibrafono di Ross è una stella nella notte del jazz che illumina i suoi “Good Vibes” guidandoli nello sviluppo di traiettorie e composizioni molto complesse. Ciò è evidente soprattutto nei passaggi più stratificati, come “Ill Relations”, “Prince Lynn’s Twins” e “The Grand Struggle Against Fear”, canzoni nelle canzoni, in cui Ross, da vero direttore d’orchestra, tesse connessioni e intensifica il dialogo con gli altri strumenti, in particolare con il sax di Immanuel Wilkins e il piano di Jeremy Corren (da considerare che la relazione tra vibrafono e piano è una delle più complicate, trattandosi di due strumenti tecnicamente e funzionalmente molto simili). Ma anche nei brani più “classici” (i vari “Grey”, “Yana”, “It’s Already Too Late” e la title-track), in cui sono la batteria di Jeremy Dutton e il basso di Benjamin Tiberio a dettare i tempi, assistiamo a una totale deformazione di quella struttura tradizionale del brano jazz che prevede una base musicale pluristrumentale costante e più o meno improvvisata da cui emergono uno dopo l’altro gli assoli dei singoli strumenti. Neanche l’intervento canoro di Gretchen Parlato in “Freda’s Disposition” riesce a confinare Ross e i Good Vibes negli schemi tradizionali del fare jazz: il risultato è al contrario un’inedita sonata a metà fra gospel e avant-jazz destinata a rimanere a lungo nei cuori di chi ascolta. Gli stessi assoli di Ross sono brevi e intensi, e fanno da apripista melodico-percussivo ai molteplici cambi di atmosfera e ritmo (si ascolti a riguardo l’iniziale e straziante “Touched By An Angel”). Tutto questo è ancora più lodevole se si considera l’immenso talento individuale di Ross che, specialmente in alcuni brani come “Is It This Love That Inspires You?” e “With Whom Do You Learn Trust?”, dimostra come potrebbe incantarci con assoli avvolgenti per un periodo infinito di tempo.
“KingMaker” è un disco visivo: ascoltandolo vediamo scorrere davanti a noi immagini, colori e visioni vivide quanto indecifrabili. Nonostante una certa latenza e un po’ di monotonia in alcuni passaggi del side B, si tratta per Joel Ross di un debutto impressionante per la maturità e consistenza espresse, che gli consentono di entrare di diritto in quella schiera di jazzisti postmoderni (Kamasi Washington, Comet is Coming e Portico Quartet, per dirne alcuni) protagonisti di un vero e proprio revival del jazz classico in chiave contemporanea.
77/100
(Emmanuel Di Tommaso)