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Questa è una storia d’amore, o almeno di un’infatuazione. Avviene a Ferrara un lunedì sera di fine giugno, in una città semideserta immersa in una immobilità afosa che sarebbe troppo banale descrivere come “metafisica”.
Soggetto è Julia Holter, mentre oggetto dei suoi aneliti è Ferrara stessa: la cantautrice californiana si profonde in dichiarazioni sospirate nei confronti del Castello Estense, “il posto più bello” in cui le sia capitato di suonare, e della città tutta. Julia trova una consonanza tra le mura del XIV secolo e l’ispirazione dei brani dell’ultimo album “Aviary”, che nella miriade di riverberi che emanano contengono sicuramente spettri di musica medievale, rinascimentale, sacra e profana.
Quella che ne scaturisce è una performance accorata: al centro ci sono i brani di “Aviary”, che dal vivo si incarnano, assumono spazio e volume, vanno diretti al cuore e alla testa. Confesso che ho faticato in questi mesi a entrare nella “voliera di uccelli stridenti” che la Holter ha costruito nel suo ultimo lavoro: invece stasera ogni resistenza e perplessità viene fugata, tale è l’autorevolezza della Julia performer, che fa vibrare i cinque musicisti attorno a lei come se fossero propaggini del suo sistema nervoso. Il cortile del Castello diviene la voliera di Julia, della sua voce che insegue ed è inseguita dal violino, dalla cornetta, dal synth.
Se l’inizio su “Underneath The Moon” e “Whether” vibra di inquietudine percussiva, di suoni che si scontrano prima di raggiungere precari equilibri, passaggi come “Voce Simul” e “Words I Heard” restano sospesi nell’aria come aurore boreali, rarefatti ectoplasmi che si colorano via via di sfumature diverse, la voce che si fa alta e forte per poi tornare sussurro, eco distante. A metà set rifanno capolino alcuni brani dallo scrigno di “Have You in My Wilderness”, e nella loro compiutezza barocca sembrano venire da una fase artistica lontanissima, che contrasta con la forma libera dei loro fratelli più giovani.
Come era accaduto a Bologna due anni fa, Julia omaggia il pubblico italiano con una intima “Chiamami Adesso” di Paolo Conte, mentre il finale ci regala ancora “Sea Calls Me Home” e “Betsy On the Roof” prima che l’ultima eco si spenga nel silenzio onirico del Castello.
La Julia Holter che ho visto stasera si trova ad un crocevia artistico: come compositrice oscilla tra i preziosismi chamber pop del passato recente e la vertigine destrutturata del presente, in vista di chissà quale futuro approdo; è assorta sul suo fare musica e sul farsi della musica attorno a lei, seguendo traiettorie personalissime che travalicano confini e aspettative, senza la preoccupazione di risultare accessibile; come performer è all’apice delle proprie forze, totalmente padrona dei propri mezzi espressivi e della propria voce.
Questo moto contraddittorio di coinvolgimento e distanza, di condivisione e solipsismo si manifesta in qualche modo durante la serata: tra il vigore delle interpretazioni di Julia e le facce inespressive dei suoi musicisti, quasi fossero i personaggi di un carillon; tra le dichiarazioni appassionate della protagonista verso Ferrara e la ieraticità delle mura rinascimentali, distanti e superbe nella propria irreale e immobile bellezza; tra l’intensità del set e la flebile presenza del pubblico non numeroso, che sottolinea i passaggi più sommessi in religioso silenzio e sembra quasi timoroso di applaudire per non perdere una nota, un sussurro.
Se si è trattato di una storia d’amore tra Julia e Ferrara, mi resta la sensazione che si sia trattato di un amore non del tutto corrisposto: ma anche questo è forse funzionale alla poetica della cantautrice in questa fase artistica, concentrata più sul moto vorticoso di suoni ed emozioni che sugli approdi e i punti di arrivo.
foto e testo di Stefano Folegati
foto in home Nick Van de Kamp (@smvise65 su Instagram)