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Partiamo subito dal bilancio. Quella del 2019 è stata l’edizione più divertente, avvincente ed eterogenea della storia del Primavera Sound (o se volete, per correttezza, dell’ultimo decennio, non avendo l’esperienza e l’età per poterla raffrontare con le edizioni precedenti a quella del 2009). I bicchieri di plastica ri-usabili e collezionabili con l’artwork e la lineup di ciascuna edizione del festival di Barcelona aiutano a tenere il festival pulito come mai in passato, ma soprattutto a ripercorrere di bevuta in bevuta la miracolosa evoluzione di un festival nato indipendente e sopravvissuto da indipendente che ha saputo trovare la sua strada sempre attento e immerso nella contemporaneità. È stata una delle edizioni più discusse dai più antichi frequentatori del festival, o almeno dai più legati all’immaginario indie, quando la parola indie racchiudeva in maniera onnicomprensiva le novità lanciate da Pitchfork e Vice e i pionieri cui si ispiravano, spesso riuniti apposta per il festival, o in altri cosi offerti per la prima volta a un pubblico di una certa consistenza numerica. A proposito di numeri, con 220mila spettatori da ogni parte del mondo (erano 60mila in tre giorni un decennio fa), questo Primavera Sound normalizzato, senza headliner da megaraduno europeo come le ultime edizioni, è continuato a crescere. Merito senz’altro dell’abilità nel trasformare la mancanza di quei nomi da Primavera in un’edizione “new normal”. Ma è come sempre merito di una visione, di una reputazione e di quell’atmosfera unica che ha ancora una volta convinto appassionati di ogni età e gusti a dare una chance al Primavera Sound e prenotare per Barcelona prima ancora di conoscere la line-up.
È stato un weekend infinito, fatto di traversate e sovrapposizioni tragiche, ma proviamo a spiegare in 7 punti gli highlight di un’edizione rivoluzionaria.
1. Le tre regine dell’edizione The New Normal
In un’edizione che ha fatto della parità dei sessi in line up la scommessa più forte e rischiosa, a trionfare sono state Solange, Janelle Monáe e FKA Twigs. Tre artiste nate tra il 1985 e 1988, quella fascia d’età mediana della generazione Y tra le più bistrattate dalla storia e dagli shock della nostra epoca. E che chissà quanto casualmente racchiude anagraficamente alcuni degli artisti internazionali che hanno trasformato gli anni Dieci in un decennio black.
Come già due anni fa, Solange dimostra una volta per tutte di non essere più da un pezzo la sorella minore di Beyoncé. Il suo live è una riproposizione un po’ fashion, un po’ Black Panther di uno spettacolo di Broadway sulla storia della black music. Lo show rifletto il mood intimo, nostalgico e da ritorno a casa del raffinatissimo “When I Get Home”. Da brividi.
Sull’impatto di Janelle Monáe c’erano pochi dubbi. Da sempre la minuta scheggia impazzita del Kansas lanciata dagli Outkast è stata una di quelle performer in grado di raccogliere il testimone degli animali da palco della storia funk/R&B. Prince, con cui stava lavorando nel nuovo album, sarebbe davvero fieri di lei. Entrambe poi non hanno rinunciato a lanciare messaggi politicamente eloquenti su integrazione e sul tema delle discriminazioni, cosa che nell’edizione più politica di due decenni di Primavera rende i due show perfettamente adeguati con il clima e con lo spirito del tempo. FKA Twigs, da buona inglese con uno sguardo altrettanto trendy ma in una chiave più artsy e innovativa, regala uno show scioccante dall’inizio molto lirico ed elegiaca sul filone Björk della fase post-Arca al finale in linea con le sue sonorità future R&B. Il tutto accompagnato da coreografie curate al dettaglio, come del resto in quelle delle altre due vincitrici del festival.
2. La storia della black music
Uno dei meriti della direzione artistica del Primavera Sound è stata, per qualcuno, quella di fare di necessità virtù trasformando l’indisponibilità di quei nomi tipicamente da Primavera in un’edizione “new normal”. Senza un pubblico così fidelizzato e affezionato alla reputazione, allo spirito e a quell’atmosfera davvero unica, forse sarebbe stato difficile rischiare come si è rischiato quest’anno, ma non mancavano nemmeno quest’anno i “classici”, quei nomi che hanno scritto pagine indelebili della storia contemporanea, a prescindere dal genere di riferimento. Non hanno certamente deluso le aspettative due dei più attesi headliner da grande festival americano. Erykah Badu ha dato una lezione di classe come era ovvio attendersi da una delle artiste viventi più influenti e raffinate con una carrellata di hit senza tempo: “On & On”, “Appletree”, “Green Eyes”, “…On”, “Kiss On Me My Neck” e una cover, tra le altre cose, di “Liberation” degli Outakast. Quarantotto anni e un fascino intatto, quasi alieno, da lunga e appagante ipnosi. NAS, che di anni ne avrebbe due in meno ma che per carica e una storia di palchi divorati con il suo flow mitragliante, sembra incredibilmente un venticinquenne, risponde a modo suo regalando un greatest hits da infarto: “The World Is Yours”, “I Can”, “Nas Is Like”, “If I Ruled The World”, “It Ain’t Hard To Tell”, “N.Y. State Of Mind”, “One Love”, “Life Is A Bitch”. Roba da salire su un taxi, andare in aeroporto e tornare a casa alla fine dello show.
Non sono ancora dei classici, benché anagraficamente più vicini all’età di Erykah e Nasir, ma ormai dei nomi che quando possono passare da Barcelona lo fanno e lo faranno senza problemi due due rapper di questa generazione tecnicamente superiori alla media: Danny Brown rade al suolo l’area Ray Ban con un set senza respiro, mentre Pusha T regala uno show più cupo e oscuro, davanti a una platea ridotta (e tutta anglosassone) per il concomitante spettacolo di Rosalía.
In questi casi si fa metà show per uno, sperando di beccare i brani preferiti perché le distanze tra i palchi anno dopo anno sembrano sempre più spietate. Future, la star mainstream per eccellenza, non cambierà le sorti della musica, da produttore ha sempre brillato molto più che da rapper e performer, ma ha dalla sua una serie di tormentoni e una produzione che accontenta centinaia di presenti che sembrano lì solo per lui.
3. Il pop. Senza barriere
I gusti sono gusti è per qualcuno risulta lecitamente arduo comprendere il fenomeno J Balvin, il colombiano che ha scalato le classifiche internazionali con un reggaeton prodotto nel modo giusto e con la giusta spinta per sfondare i woofer di piste grandi e piccole. Ciò che fa riflettere, in una prospettiva storica, è la presenza di un artista di Medellin che diventa headliner nel paese dei colonizzatori. Un po’ come quando la tamil M.I.A. che però in Inghilterra ci è nata e cresciuta, conquistava i bill dei megafestival britannici. Un po’ come se un etiope fosse headliner di un festival italiano, se mai avessimo o avremo un festival del genere. Lui riconosce questa importanza identitaria con un discorso introduttivo molto forte, poi ovviamente la butta in caciara com’è giusto fare per un colorato baraccone del genere.
Un’altra esponente a fare un figurone è la profeta in patria, la catalana Rosalía, in grado di conquistare in meno di due anni un pubblico internazionale partendo da un paese che non ha una grande tradizione in termini di fenomeni planetari di questo tipo. Il suo show è minimale, curato come una produzione americana. Quel suo timbro ammaliante e le sue hit fanno innamorare tantissime coppie in platea. Senza alcuna barriera di età, gusti sessuali e origini.
Il pop è stato rappresentato in tutte le sue coniugazioni in questa edizione “the new normal”. Un’inossidabile Robyn ha tarda notte ha fatto in tutto e per tutto la Robyn, una compassata Miley Cyrus che non gradendo forse di essere stata chiamata da rimpiazzo di Cardi B ha svolto un compitino pop-rock molto sobrio e adulto, la venezuelana Kali Uchis, a dispetto della sua presenza scenica molto appariscente dimostra di essere un’artista di valore trasversale in grado di accontentare Damon Albarn, Tyler The Creator, Steve Lacy e giovanissimi appassionati di reggaeton, la scanzonata Carly Rae Jepsen ha trasformato in un frizzante dancefloor da under 20 l’area dei due palchi principali, così come Charli XCX che ha fatto ballare e smuovere persino i lentissimi baristi portoghesi (che il Primavera porta a Barcelona con dei bus e ingaggia nei bar per evitare troppi regali a conoscenti da baristi del posto). In linea con la PC Music da cui Charli XCX si è mossa prima di diventare la popstar più fresca e contemporanea del momento, da segnalare il martellante set del suo vecchio amico e collaboratore Danny L Harle. Qualche anno fa era considerato il movimento pop del futuro, oggi se ne parla meno, ma in molti casi è stato inglobato nel mainstream (vedi Sophie, altro nome in cartellone che è stato difficile incastrare tra i soliti ingestibili clash).
4. Il futuro black
Tante donne bravissime, tantissime artiste under 30 o addirittura under 25 hanno arricchito una line-up sempre più estesa che rende difficili le scelte (il rimorso più grande è stato quello di essersi persi una delle star R&B del futuro, Tierra Whack). Little Simz, che non è nuova su queste pagine, ha mostrato il suo sconvolgente talento di rapper, arrangiatrice e compositrice fuori dai canoni. Gli stessi canoni che l’elegante Celeste interpreta in chiave soul moderna e matura (al pari del britannico Loyle Carner costretto a perdersi il primo tempo della finale del suo Liverpool, mentre decine di inglesi si mettevano in coda nel palco “pub” Your Heineken Stage) e che le irriducibili warrior queer destrutturano e calpestano (l’incazzatissima 070 Shake, la sinuosa Junglepussy, le dissacranti cupcaKke e Mykki Blanco), come i due act che hanno chiuso, sfiniti e devastati in tutti i sensi, la programmazione del sabato dei due palchi Pitchfork-Adidas (uno Slowthai ridotto ai minimi termini da eccessi vari e un JPEGMAFIA sguaiato e imprendibile). Il futuro della black music è sempre più britannico e le scelte stilistiche (oltre che le produzioni) di Flohio e di AJ Tracey ne sono la prova lampante. Sia lui che Little Simz se suonassero dalle parti di Londra raccoglierebbero migliaia di fan in più e palchi ben più lusinghieri dell’intimo spazio del Seat Village. Ne riparliamo tra tre anni.
5. Un festival parallelo di elettronica
Il Primavera Bits da qualche anno ha trasformato la spiaggia di Sant’Adria de Besos una terra di frontiera per clubber che affrontano il ponte per cambiare comune ed esaurire le energie residue in uno spazio diverso dal Parc del Forum fino all’alba. Ma bisogna ammettere che mai come quest’anno un appassionato di elettronica, o più specificamente di techno contemporanea, poteva godersi un festival nel festival che a qualsiasi ora il meglio degli act del genere disponibili tra palchi principali (James Blake, precedentemente comparso da guest con Rosalía, ma anche il divertentissimo, al solito, Mura Masa, e Yves Tumor che di elettronico ha solo l’estrazione avendo offerto un set glam-rock rumoroso e straripante), il claustrofobico e annichilente Ray Ban Studios e i due spazi della spiaggia, cui si sono aggiunti un palco Lotus davvero suggestivo quasi a ridosso del bagnasciuga senza problemi di volumi grazie all’impianto sparato verso il mare (e che ha ospitato anche artisti di altri generi, come già nello scorso anno il palco Desperados) e El Punto, lo stage del campetto da calcio curato dalla star trap iberica Yung Beef con la programmazione urban di stampo latino che tanto ha fatto discutere ai tempi dell’annuncio (e tanto ha fatto divertire chi ci passava un po’ per caso, un po’ per scelta e per curiosità). E che si spera abbia fatto capire che, così come il rock, il reggaeton non è solo robaccia radiofonica, ma ha una tradizione underground planetaria cui è molto difficile restare indifferenti. E fermi.
Così spesso ci si trovava ad avere una scelta fin troppo ampia permettendosi di snobbare (per gusti personali) Peggy Gou, Modeselektor e Nina Kravitz, seguendo il proprio gusto personale nei contemporanei o quasi coincidenti set di chi sta spostando avanti le lancette della ricerca ormai da anni, tra Bristol, Londra e Berlino: Laurel Halo si è dimostra una delle migliori selezionatrici, nonostante un orario un po’ complicato in un set del tramonto che resterà negli annali. Batu sta continuando a crescere e ha avvicinato alla scena di Bristol diversi curiosi meno dentro quel filone, mentre Objekt che si è esibito sia nei Ray Ban Studios che nel nuovo Lotus in spiaggia, ha forse offerto lo spettacolo audio-visivo (affiancato da Etra) più intenso e contemporaneo del weekend. Uno dei momenti più alti e ricercati del festival, con una lezione di underground elettronico che dall’ambiente è passato per il dubstep destrutturato culminando nella jungle in un’ora e poco più di live set. A differenza di Helena Hauff che ci ha fatto vivere momenti migliori in altre edizioni, ma forse dopo Objekt sarebbe stato meglio andare a casa a dormire. Di tutt’altro stampo e mood, la chiusura di un giorno dopo, alle prime luci dell’alba della brillante Avalon Emerson che nell’ultima notte di Primavera Bits ha coccolato e accompagnato le vibrazioni dei più instancabili con un set house da after caldo, appassionato e rigenerante.
Un modo per consolarsi per aver perso troppi set elettronici in un numero di palchi che anno dopo anno diventa ingestibile anche per i più rapidi.
6. Il pubblico!
In parte l’abbiamo già accennato, ma questa edizione è stata la più divertente anche grazie al pubblico. Sorridente, rilassato, curioso, anagraficamente molto vario. E soprattutto, come come ha fatto giustamente notare Geoff Barrow dei Portishead (presente da artista con i Beak> e noto per essere una lingua biforcuta soprattutto su Twitter) “mixed”, non formato in prevalenza da gruppi di uomini bianchi come in buona parte dei festival di queste dimensioni. In Nord Europa succede da un po’ che ci sia arrivata una nazione giovane come la Spagna è sicuramente un buon segnale, nell’edizione più politica, femminile ed LGBTQ della storia del Primavera Sound. Il pubblico ha gradito, le vibrazioni sono state sempre positive e “happy”. Un successo. L’azzeramento del gender gap che poteva sembrare una trovata ruffiana, negli esiti ha avuto la sua influenza. Ed è giusto riconoscerlo. E applaudire.
7. Il concept e il futuro del Primavera
Anche quest’anno non mancavano i nomi da Primavera, come da tradizione, e hanno fatto bella figura su tutti i Sons Of Kemet (con formazione a quattro batteriste) e tra i “classic” sia i Guided By Voices che la band reunion di questa edizione (gli Stereolab che hanno fatto gli Stereolab alla maniera degli Stereolab in un orario tutt’altro che facile). I Low hanno fatto vivere angosce e spettri in un incubo da obnubilazione e tracollo emotivo e non è mancato il nome “teaser”, Stephen Malkmus che ha fatto da preludio ideale al primo annuncio del Primavera 2020, i Pavement che torneranno al festival dopo dieci anni esatti, pare insieme ad altri nomi iconici per la prossima edizione celebrativa. Nel frattempo il Primavera allarga i suoi confini geografici confermando una data a Los Angeles per settembre 2020 e un’altro appuntamento ancora non annunciato per i prossimi dodici mesi. Difficile dire se il clamoroso successo dell’edizione The New Normal porterà gli organizzatori a un’altra edizione The New Normal. Sicuramente si troverà un nuovo equilibrio, come da tradizione, che scontenterà inevitabilmente i nostalgici accogliendo a Barcelona nuovi appassionati e curiosi. Se il risultato dovesse essere quello di quest’anni, non ci che resta che sperare in altre dieci edizioni come questa storica, forse rivoluzionaria edizione del 2019.