Share This Article
Erano gli inizi degli anni 90, dopo una decade buona di “plastica sonora” si incominciavano a risentire suoni provenienti da veri strumenti e non da macchine o filtri.
A noi appassionati di “America”, che avevamo consumato la videocassetta di Woodstock, quello vero, avevamo come ultimo baluardo i REM, quelli pre “Out of time”, quelli che ancora viaggiavano carbonari nelle cassette registrate dall’amico dell’amico. La tendenza che aveva portato due fari come Bruce Springsteen allo scialbo “Tunnel of Love” e Tom Petty al punto di minimo con “Southern Accents” sembrava non passare. Nessuno dei ‘reduci’ degli anni 70 che i cugini più grandi ci avevano fatto scoprire sembrava veramente interessato ad uscire con qualcosa che meritasse l’ascolto.
In un’epoca in cui dovevamo dipendere dalle riviste, che veramente potevano direzionare gli acquisti di una bella fetta di pubblico, non si intravedeva – a parte qualche spiraglio – nulla di veramente importante.
La scossa arrivò dal Canada o meglio da un canadese. Con la sei corde scassata, la Gibson Les Paul distorta e il pump organ Neil Young prima con “Freedom” e poi con “Ragged Glory” (1989 e 1990) creò un tale solco che sgorgarono prima sulle riviste, poi nei negozi, un fiume di dischi di artisti sconosciuti le cui sonorità tornavano ad essere autentiche. Seguirono a ruota i ‘grandi’: “Into the Great Wide Open” di Tom Petty, “Out of Time” (1991) dei REM, ridiedero una nuova linfa ad una musica ben estranea al grunge tanto di moda allora. In tutto questo venne a galla un mondo che da anni cercava di uscire dalla provincia americana, che da noi sarà chiamato “roots-rock” e in USA “Americana” o “alternative country” fatto da un mix di country, rock ‘n roll, blues con slide, violini e chitarre distorte. Principali alfieri furono gli Uncle Tupelo (metà dei Wilco e metà dei Son Volt poi) e loro, i Jayhawks.
Questi ultimi si formarono nel 1985 a Minneapolis, Mark Olson e Gary Louris si dividevano il ruolo di frontman tra voci e chitarre e dopo due timidi dischi autoprodotti, più per gli amici che per farsene qualcosa di serio, incisero quello che si può definire la pietra miliare del genere alt-country: “Hollywood Town Hall”.
A risentirlo oggi ci si ritrovano diversi rimandi ai tanti cantautori che poi ne hanno raccolto, con molto più frutto, l’eredità: Suzanne Vega, Ryan Adams, Jason Isbell, Ray LaMontagne, Josh Ritter e per sua stessa ammissione Jeff Tweedy.
A partire dalla copertina che vede i quattro in posa su uno sgualcito divano, nella neve, davanti alla Hollywood Towhall di uno sperduto paesino del Minnesota omonimo della famosa località californiana, l’album ritrae esattamente quello che volevano quei quattro ragazzi: uscire dalla piccola, piccolissima provincia per diventare qualcosa di più.
Il disco, prodotto da George Drakoulias che poi farà la fortuna di Black Crowes e Primal Scream, vede non casualmente, Benmont Tench, tastierista della band di Petty nei credits. La freschezza che ha ancora oggi è incredibile la serie di brani totalmente inseriti nella tradizione americana toglie il fiato. L’armonica di “Waiting for the sun”, le melodie e la slide di “Two Angels”, i tocchi di classe di “Nevada, California” non ha eguali nelle produzioni degli anni precedenti.
Basti ascoltare il primo dei Wilco, prima che prendessero una loro strada, per rendersi conto di quanto sia fondamentale.
Ovviamente non tutti furono in grado di farlo, ma il seme era piantato e negli anni successivi tutto si normalizzò e gli stessi Jayhawks si lasciarono e ripresero diverse volte e come tutti i fiumi si crearono tanti rivoli, più o meno interessanti, ma se non ci fosse stato HTH buona parte degli artisti sopracitati che avrebbero languito nei pub dei loro paesi senza speranza, ma per quegli anni, con il picco intorno al 1995, fino al nuovo millennio per noi “americani” c’era tanto tantissimo per le nostre orecchie.
Lunga vita a Mark Olson e Gary Louris.
(Raffaele Concollato)