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Va bene, questo qui non è un grandissimo disco e non è un disco epocale, oppure lo puoi definire “epocale” perché lo vai a ricollegare a un momento storico specifico, una pagina molto spesso poco considerata, eppure indimenticabile, della storia della musica. In fondo gruppi come i Silver Jews, epigoni dei Pavement e di esperienze come quelle della Elephant 6, hanno veramente raccontato una generazione come non ha saputo fare nessun altro durante quegli anni e questa è stata ed è ancora oggi una generazione perduta e che è diventata grande all’improvviso, mentre venivano giù le Twin Towers l’11 settembre del 2001, si faceva la guerra in Afghanistan e in Iraq e poi arrivava quel grande cambiamento epocale che è stata la crisi economica, che è stata ed è una crisi anche sociale e culturale. Un gigantesco buco nero.
Probabilmente ci stavamo già dentro sin da quando eravamo ragazzi, una inquietudine che si traduce in una irrequietezza che esorcizzava il mito gigantesco di Kurt Cobain, riscopriva la pop psichedelia degli anni sessanta-settanta e la collocava in una dimensione a bassa fedeltà che non era devozione alla cultura new-age, ma voglia di essere semplicemente se stessi.
David Berman è stato ed è ancora oggi una delle figure più rappresentative di quel movimento, forse l’elemento di maggiore spicco assieme a Stephen Malkmus oppure Jeff Mangnum, l’indimenticato Bill Doss e comunque forse quello che ha avuto la vita più travagliata a causa di brutte storie con la tossicodipendenza e roba come la depressione, che lo hanno tagliato fuori dal giro per un bel po’ di tempo. Poi l’incontro con qualche amico vecchio e nuovo, Dan Auerbach, Jeff Tweedy, Dan Bejar e alla fine questo nuovo progetto con i Woods, Purple Mountains, che è andato avanti fino alla pubblicazione di questo LP eponimo per la Drag City.
Ci sono dentro dieci pezzi inediti (uno scritto con Auerbach e Gate Pratt) lisci come l’olio, accattivanti come le migliori ballads di Stephen Merritt versione “Vicious”, quel taglio “indie” tipicamente Silver Jews e la attitude pop-rock psichedelica a bassa fedeltà Elephant 6 (alla fine tutte le varie guest e collaborazioni arrivano da quel giro) e dove se c’è “monotonia” (ovvero poca varianza tra una traccia e l’altra) in fondo importa veramente poco, perché il mood è quello giusto e anche se non è un exploit, e chissà se ce lo avremo mai tutti quanti questo momento di gloria, quei maledetti quindici minuti, in fondo l’importante è sapere di avere ancora qualche cosa da dire. Bentornato.
73/100
Emiliano D’Aniello