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Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.
PRETTIEST EYES, “Vol. 3” (Castle Face, 2019)
Direttamente da Los Angeles, California, un gruppo che suona un garage rock and roll selvaggio e quella vena psych che rimanda a esperienze degli anni sessanta-settanta rivedute secondo il vangelo Suicide e prossima a esperienze proficue degli ultimi anni come Night Beats e UFO Club. “Vol. 3” è il terzo LP (si intende) dei Prettiest Eyes ed esce per la Castle Face. Ispirato a una visione caleidoscopica e “dancetronica” del macrouniverso psichedelico, vi troviamo nell’album anche la cover di “It Cost’s To Be Austere” degli epici Crash Course In Science, a riprova che si pesca come attitudine e atmosfere alla versione più oscura e sotterranea del post-punk. Non a caso ho menzionato i Suicide anche se il suono qui è molto più tagliente e tipicamente rock and roll, caratterizzato da un basso potente e pezzi che scivolano via rapidi e allo stesso tempo carichi di furore garage: “Johnny Come Home”, “I Don’t Know”, la frenesia di “Nekrodisco”, “The Shame”, “Another Earth”. Ricorrente l’uso di distorsori e effetti eco e riverbero per la voce, i Prettiest Eyes a tratti potrebbero ricordare gruppi ruffiani come gli Strokes degli esordi, anche se qui non c’è nessuna paura di essere veramente brutti, sporchi e cattivi e se i Suicide sono in alto come una icona da riverire (vedi roba in slow-motion come “Strange Distance”), il garage degli Stooges è il sangue che scorre nelle vene. Definiti anche come post-industrial, a me sembra che invece non ci sia niente che faccia pensare a roba tipo macchine e sintetizzatori, che ovviamente ci sono, ma più che quelli, colpisce l’impazzimento delle tastiere che aggiunge nei momenti più scatenati, vibrazioni e oscillazioni lisergiche a alta intensità. Giudizio finale: un piccolo manifesto, una brochure, che spiega il bisogno di una nuova rave revolution universale.
72/100
BLACK MOUNTAIN, “Destroyer” (Jagjaguwar, 2019)
Stephen McBean mescola le carte e con qualche cambio nella line-up, dentro Arjan Miranda, Rachel Fannan (Sleepy Sun) e Adam Bulgasen (Dommengang, Soft Kill) e collaborazioni importanti come quella con Kliph Scurlock (Flaming Lips), il mitico Kid Millions de gli Oneida (amo questo musicista) e il producer John Congleton, ritorna in sella al progetto Black Mountain, una delle realtà che hanno fatto la storia del rock psichedelico più massivo degli ultimi 15-20 anni. Probabilmente, si converrà anche ascoltando questo album, giustamente intitolato “Destroyer”, questo gruppo non ha molto altro da dire dopo tutti questi anni, però la rinfrescata con il cambio di line-up e la solita classe, fanno sì che questo “poco”, gli riesca bene e pure con una certa faciltà di contenuti, si denota una certa varietà che piacerà ai vecchi psiconauti e che pagano devozione ai pilastri del genere degli anni sessanta-settanta. Gli “spaccamontagne” aprono subito con un pezzo tosto come “Future Shade”, infetto da un certo manierismo anni ottanta e toni che ricordano nel meglio la verve del Roky Erickson tenebroso di quegli anni: una componente glamour che si accentua con l’effetto della voce “robotica” di “Horns Arising”, le spacconate nei solo di chitarra, bridge possenti come quello strumentale di “High Rise”, un campionario di contenutistica sul piano concettuale e culturale tipico del metal degli inizi (cioè quello del metal e basta), eco floydiane (“Boogie Lover”), set di tastiera e sintetizzatori che sembrano uscire direttamente fuori da un film di John Carpenter (“Closer To The Edge”, “FD 72”). Una celebrazione dell’heavy-psych derivativo dalla cultura dei Sabbath, gli Zeppelin e Hawkind, visioni Alice Cooper e controcultura anni ottanta. A chi piacerà, sarà proprio per tutte queste ragioni specifiche. Gli altri potrebbero trovarlo persino pesante, forse, e non solo per il sound “heavy”. Patinato, quindi, molto manieristico, diciamo “costruito” (nel senso proprio architettonico) ma valido. Forse pure troppo. Appunto.
68/100
KYLE CRAFT & SHOWBOAT HONEY, “Kyle Craft & Showboat Honey” (Sub Pop Records, 2019)
Kyle Craft è la stellina del glam rock di questi anni. La sua ascesa, peraltro, è stata irresistibile e inarrestabile sin dall’inizio: il suo primo LP, “Dolls Of Highland”, è uscito solo tre anni fa e subito per una label importante come la Sub Pop Records. Successo immediato. Bissato da un album ancora migliore come “Full Circle Nightmare” e che lo ha praticamente consacrato come uno degli esponenti di punta della storica etichetta e come esponente di punta della scena pop-rock alternative americana. Tutto questo vi potrà sembrare eccessivo ed è bene sottolineare che, bravura a parte, il ragazzetto non mi entusiasma particolarmente, eppure il talento è innegabile, perché pure in questo disco non c’è una sola canzone, una, che non sia quantomeno orecchiabile. I riferimenti sono sempre quelli lì, pescate a piene mani dal quadro degli anni sessanta-settanta, al centro metteteci ovviamente John Lennon (a partire da “Deatwish Blue”…”), poi contornatelo di ballate nello stile del suo storico partner Paul McCartney (“Broken Mirror Pose”), parecchia roba tipo Kinks, visioni Marc Bolan come “Johnny” e ammiccamenti “Vicious” tipo “Bed Of Needles”, accenni di uno stile “mod” tipicamente british e soprattutto tutto quanto abbia a che fare con David Bowie fino a “Ziggy Stardust”, che è e resta secondo me il riferimento principale. Però non parlerei solo di roba già sentita e di una specie di andare a fondo in operazioni amarcord che poi non portano da nessuna parte. Le canzoni di questo album sono veramente belle, sono forti, orecchiabili e hanno una contenutistica tipicamente pop-rock anni sessanta-settanta, ma questo non significa che ne riciclano i temi, perché al massimo li attualizzano e contestualizzano nella realtà quotidiana di oggi. Quindi Kyle Craft sa cantare, sa scrivere canzoni e ha uno stile sicuramente riconoscibile, persino eccentrico e quindi un ego importante (però il disco è firmato “Kyle Craft & Showboat Honey”, quindi asssieme alla sua band di supporto, che sta a significare che questo ego evidentemente non corrisponde a forme di arroganza) . Che cosa gli vuoi dire allora, se non bravo.
78/100
BLACK TO COMM, “Before After” (Thrill Jockey, 2019)
A distanza di pochi mesi dall’uscita di “Seven Horses For Seven Kings”, Marc Richter e la Thrill Jockey fanno “bis” e pubblicano altro materiale fuori dalle stesse sessioni di registrazione e un nuovo LP intitolato “Before After”. Ciononostante, voglio dire, sebbene le registrazioni siano state fatte nello stesso periodo, il lavoro guarda in una prospettiva differente rispetto alla furia rabbiosa di “Seven Horses…”. Sono due dischi diversi e pure riprendendo anche parte dello stesso materiale, come nel caso di “Etats-Unis” e “Perfume Sample”, “Before After” si realizza con composizioni che sono forse più ordinate, ma comunque rarefatte in una dimensione drone che più che esprimere angoscia, terrore, si realizza in inquietudini nello stile del cinema di Cronenberg oppure della letteratura più allucinata di Sir William Burroughs. Il riferimento va a prima del dopo, quindi a una specie di tempo futuro distopico che poi è il tempo presente e nel disperato tentativo tra tutti questi spettri, di attaccarsi a qualche cosa di concreto. C’è il dramma dell’uomo, perso nella decadenza come in allegoriche rappresentazioni della vita umana e quindi “Brazil” di Terry Gilliam. Ci sono i pionieri della musica elettronica, a partire dalla volontà manifesta di ispirarsi a una figura fondamentale come quella di Eliane Radigue e la sua concezione degli spazi, secondo la quale siamo sempre nel mezzo. La risposta di Richter è quella di ambientare idealmente l’album nel medioevo: “The Seven Horses” è effettivamente un pezzo folk dell’alto medioevo, quindi più che di allucinazioni allora possiamo parlare di storia e questa può fare paura, può persino essere un incubo tanto quanto un viaggio dentro la propria mente in un continuum spazio-temporale che può essere concepito solo attraverso una profonda analisi interiore di se stessi oltre che tramite un autentico processo cognitivo e guardate che è tutto tremendamente giusto, condivido questo processo e questa analisi, solo che alla fine qui è veramente tutto così complicato che questo disco poi è pesante, troppo pesante, a m eno che tu non sia uno che prova un sottile piacere a alimentare la propria anima e le proprie orecchie di incubi. In questo caso, benvenuto.
50/100
THE HIGH DIALS, “Primitive Feelings Part 1” (Hook & Prayer/Ray On, 2019)
Non si sono mai veramente definiti in una maniera giustamente “solida”, gli High Dials nel corso delle loro produzioni. Questo probabilmente perché è proprio il loro sound a essere in qualche maniera fluido, sfumato come quelle composizioni astratte e colorate degli anni sessanta e che poi costituiscono il corpus del loro immaginario e principoale punto di riferimento. Questa mancanza di “sostanza” non è tanto una pochezza sul piano compositivo, ma sembra qiomdo più essere una specie di propensione nella reiterazione di forme tipiche della fine degli anni sessanta nella scena pop-psichedelica, specialmente britannica, ma anche nella West Coast possiamo ritovare sonorità di questo tipo. Il gruppo oggi è formato da Trevor Anderson, froman e produttore, più Robbie McArthur alle chitarre, Max Hebert alla batteria e Monica Gunter viola e violoncello. Il progetto messo in piedi stavolta è la pubblicazione di un LP in due parti. Questa è la prima, “Primitive Feelings – Part 1”, un album che guarda chiaramente a Syd Barrett oltre che a forme di musica pop, con sfumature di psichedelia, che hanno avuto successo negli anni novanta, in ordine cronologico, Primal Scream (“The Future Prospects Of Your Ego”, “Jaws Of Life”), Beck (“City of Gold”), quella predominante Cornershop (“Employment and Enjoyment”, “World War You”, “Guerilla Guru”, “Primitive Feelings”…). Il gruppo di Montreal sceglie quindi per il rilancio, una devozione alla musica pop-psichedelica degli anni novanta e dimensioni lisergiche che si inseriscono anche in un contesto di musica da club in continuità con quella tradizione mod mai rinnegata. Pure senza splendere, ci riesce, ma resta un senso di incompiutezza e da vedere se questo disco avrà un senso più compiuto una volta fatto combaciare con la seconda parte oppure no.
64/100
Emiliano D’Aniello
Foto: Gustav Metzger (1926-2017).