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Un altro Indie Rocket è finito.
Un festival che ormai affonda la sua storia e la sua ricerca musicale direttamente nel territorio che rappresenta.
Un racconto bello, e ormai lungo, in senso puramente storico, che si può giudicare dalla sua circolarità, dalla capacità di rievocare eterni ritorni e biforcazioni che, prima o poi, tra un set e l’altro, si incrociano.
Tante piccole fiamme che si riaccendono in un mix di elementi estremamente diversi, ma splendidamente coraggiosi. In fin dei conti, il senso è esattamente creare un falò comunitario in cui ritrovarsi ad ascoltare musica estremamente varia, e non solo.
Nella prima sera di questa edizione siamo stati effettivamente sbattuti a terra, abbiamo visto in faccia le “radici”, le fondamenta del pianeta; nella seconda serata invece la messa a fuoco era completamente spostata sull’uomo, grazie ai set “per il sociale” di Gnucci e Miss Bolivia, che in una chiave assolutamente attuale hanno raccontato aspetti della società anche molto duri.
Per l’ultima sera però il focus, il centro dell’attenzione, o meglio lo sguardo era sicuramente puntato verso il cosmo, una via che percorreva galassie diverse, distanti, ma ugualmente ospitali e brulicanti di alieni.
IDRIS ACKAMOOR & THE PYRAMIDS
Un’oasi nel cosmo. La costruzione di mondi di uno dei jazzisti più importanti sulla scena parte esattamente da sotto al palco, con un giro molto gipsy tra la gente che si muove intorno a queste leggende viventi.
Le radici terrene allora partono, schizzano in un viaggio incredibile che porta tutti in un cosmo caotico, ma incredibilmente vario e bello. Idris è la cosmogenesi del bello ma imperfetto e del ritmato.
Quello che è successo con loro sul palco è difficilmente raccontabile, anche per chi dovrebbe riuscirci, ma “non ce la faccio, troppi ricordi”.
ORCHESTRE TOUT PUISSANT MARCEL DUCHAMP XXL
Un’orchestra che spacca il suono come un capello, una serie di armonie che cadono, si acutizzano, sembrano perdersi per poi ricomporsi.
Un suono libero, modulato sull’improvvisazione, insomma tutto è molto vicino e perfettamente bilanciato sul nome di Marcel Duchamp. C’è infatti quella spinta dell’improvvisazione che riesce a mettere sul palco un puzzle di elementi diversi, forse distanti, ma che suonati da questa gigantesca orchestra prendono una nuova forma, che si adatta perfettamente al contesto, ai volti delle persone, ai suoni dell’ambiente intorno.
Il loro jazz orchestrale si confonde e sfocia in un territorio teatrale e metafisico.
AMMAR 808
Una chiusura perfetta, spinta, e a tratti devastante. Il set è pieno di parallele e strade biforcate in cui i suoni medio-orientali si inseriscono ed entrano a gamba tesa su una cassa tirata a lucido. Il set è una strada a metà tra Omar Souleyman e tutto quello che è successo in questi giorni.
Una chiusura circolare, una summa di diversi pubblici e diverse anime musicali. In fin dei conti essere squarciati dai bassi è un modo perfetto per concludere una tre giorni così intensa.