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La Merge Records compie 30 anni, ed è un bellissimo anniversario. E’ un’etichetta che nel tempo ha prodotto e messo in catalogo dischi importanti e in modo coerente, senza farsi mancare qualche svisata in generi non usuali (per lei).
L’etichetta con sede a Durham (Carolina del Nord) festeggerà l’evento con un festival proprio a Durham e a Carrboro, una 4 giorni dal 24 luglio a sabato 27, con una serie di artisti: Destroyer, Superchunk, the Mountain Goats, Waxahatchee, Wye Oak, Titus Andronicus, Lambchop, Swearin’, Fucked Up, Hiss Golden Messenger, Sneaks, e Ibibio Sound Machine.
La Merge stata fondata nel 1989 da Laura Ballance e Mac McCaughan inizialmente per distribuire i lavori della loro band, i Superchunk e di pochi altri gruppi. Poi sappiamo com’è andata.
Abbiamo pensato di dedicare alla Merge uno speciale, attraverso la scelta di 7 album del catalogo (tra i tanti) a cui siamo affezionati. Rimettiamoli magari su, in questi giorni, in streaming o sul piatto o nel lettore cd, sarà un bel modo per festeggiare.
Auguri, Merge!
POLVO, “Today’s Active Lifestyles” (Merge Records, 1993)
La Merge Records e i Polvo si muovono inizialmente nello stesso raggio d’azione : nascono entrambi nella cittadina universitaria Chapel Hill (Carolina del Nord).
Sarà Mac McCaughan (Superchunk e fondatore dell’etichetta) a mettere sotto contratto discografico la band di due suoi vecchi compagni di high school, Dave Brylawski e Steve Popson – rispettivamente chitarrista e bassista dei Polvo.
Dopo l’ottimo album di debutto “Cor-Crane Secret” (1992), il gruppo – prima di passare alla Touch & Go Records di Chicago – pubblica per la Merge un ultimo lavoro (non prendendo in considerazione il ritorno del 2009, “In Prism”) : una produzione fuori da ogni possibile catalogazione di genere e con in cabina di regia Robert Wetson, bassista negli Shellac e produttore sulla stessa lunghezza d’onda di Steve Albini.
“Today’s Active Lifestyles” (1993) è un disco unico, difficile trovare qualcosa di simile negli anni novanta : si è spesso parlato di math rock, potrebbe anche starci come definizione. Sarebbe però riduttivo e forse anche un po’ banale : a rendere speciale questo secondo album dei Polvo è la totale libertà sonora data dalla volontà, intuitiva e spontanea, di sperimentare a 360 gradi. Le chitarre ritornano protagoniste pur essendo solo un fine e non più un mezzo con delle regole da seguire. Melodie che affogano nel rumore, esplosioni noise bruciate in divagazioni dolci e acide.
(Monica Mazzoli)
NEUTRAL MILK HOTEL, “On Avery Island” (Merge Records, 1996)
Quando la Merge pubblica “On Avery Island” il 26 maggio del 1996, i Neutral Milk Hotel sono la creatura amorfa di Jeff Magnum, semisconosciuto e visionario songwriter polistrumentista proveniente dall’esperienza degli Elephant 6: questo collettivo sperimentale di musicisti psichedelici rappresenta uno dei movimenti più interessanti della scena underground negli anni dello sfavillante impero alt-rock degli R.E.M., di PJ Harvey e Nick Cave, di “Clouds Taste Metallic” dei Flaming Lips e di “Odelay” di Beck. È esattamente nel 1995 che Magnum, alla ricerca di un’identità musicale da trasmettere al suo progetto, si ritira nel rigido inverno del Colorado in compagnia delle proprie immaginifiche visioni del mondo, del “quattro tracce” di rito, dell’amico di infanzia Robert Schneider e di una manica di altri musicisti del giro degli Elephant 6 al limite fra la santità e la follia.
Pochi mesi ed il disco di debutto dei Neutral Milk Hotel è pronto. Fondato sulla ruvida tenerezza dell’incedere vocale di Magnum, e sull’ibridazione fra le chitarre folk acustiche e le saturazioni psichedeliche e distorsive di Jesus And Mary Chain e Sonic Youth, “On Avery Island” diventa con il passare degli anni un disco seminale del rock indipendente, raggiungendo un successo tutt’ora crescente di critica e pubblico. L’ennesima scommessa molto rischiosa vinta da Merge Records nel corso della sua Storia trentennale.
(Emmanuel Di Tommaso)
THE MAGNETIC FIELDS, “69 Love Songs” (Merge Records, 1999)
Non so se sia stata la lungimiranza delle Merge o il rispetto per il talento cristallino di Stephen Merritt (che nel 1994 si era presentato alla casa discografica con un lavoro come “The Charm Of The Highway Strip”, in cui si definivano quelle che sarebbero state le norme base dell’indie-pop del futuro). Sta di fatto che per sostenere produttivamente un disco come “69 Love Songs”, ad altissimo rischio di flop, bisogna avere del genio, almeno quanto ne ha avuto Merritt nel comporlo.
La storia la sappiamo tutti: un gay bar a Manhattan, l’idea iniziale di fare delle performances teatrali con il titolo “100 Love Songs”, poi ridotte al più seducente numero di 69, e infine il progetto discografico avvallato dalla Merge. Inizialmente l’opera fu commercializzata in tre parti separate, e solo dopo un breve periodo in cui si registrarono pochissime vendite si pensò di adottare la formula dell’unico cofanetto, dando così all’opera il carattere di unitarietà con cui era concepita.
“69 Love Songs” mette in scena tutto il talento da cantautore pop di Merritt: le canzoni, piccoli frammenti di un grande discorso amoroso, sono in grado di raccontare le più diverse sfaccettature dell’amore, senza rinunciare ad espliciti riferimenti letterari importanti (su tutti i sonetti d’amore shakespeariani), manifestando un bagaglio compositivo di primissimo livello.
Quello che ci si ritrova davanti è perciò molto di più di un semplice album musicale: è una vera e propria raccolta di poesie d’amore, di sonetti e canzoni interpretate magistralmente da uno dei più grandi geni che il pop abbia mai visto.
(Gianpaolo Cherchi)
LAMBCHOP, “Nixon” (Merge Records, 2000)
All’interno del vasto catalogo della Merge Records i Lambchop si distinguono per la loro idea di una musica totale che viaggi al di là dei generi e delle epoche storiche. Presenti nel roster già dal 1994 con il singolo “Nine/Moody Fucker” e l’esordio “I Hope You’re Sitting Down”, il gruppo di Kurt Wagner con i lavori successivi ha raccolto il testimone degli Uncle Tupelo nell’élite dell’Alternative Country senza però mai ottenere un grande riscontro di pubblico.
Un incantesimo rotto dall’uscita nel 2000 di “Nixon”, che in realtà si guadagnò prima il favore della stampa musicale del vecchio continente: pubblicato dalla berlinese City Slang, NME lo definiva un album illuminato sulla scia di “Pet Sounds” mentre Mojo paragonava i Lambchop ai Belle And Sebastian per raffinatezza e integrità artistica; infine UNCUT non esitò a definirlo uno dei grandi dischi del nuovo millennio agli albori.
Si può ragionare tanto su queste valutazioni ma una cosa è certa, è il loro album più completo, tanto sofisticato quanto geniale. Prodotto con il chitarrista Mark Nevers (Tindersticks, Silver Jews) e un ensemble di una quindicina di strumentisti, “Nixon” raccoglie dieci gemme, altrettanti sogni elettroacustici in cui Wagner ragiona di negritudine, che sia il funky di “Grumpus”, il Philly Sound in falsetto di “What Else Could It Be?” o la lenta “The Book I Haven’t Read”, un omaggio a Curtis Mayfield, eroe della band tristemente scomparso l’anno precedente. Altrove fanno capolino l’indie-rock melodico (“You Masculine You”) e il Bob Dylan di “Time Out Of Mind” (“The Distance From Her To There”), ma il disco vive anche di contrasti, quando l’eleganza jazz di “The Old Gold Shoe” viene sopraffatta dalla catarsi dark-wave dell’ultimo brano in scaletta, “Butcher Boy”.
La velvettiana “The Petrified Forest” o il giovane Tom Waits di “Nashville Parent”, collidono nell’album Merge dal sound più classico nel suo essere ad ogni modo alternativo: nel videoclip di “Up With People” il discusso ex presidente USA – il titolo “Nixon” è stato deciso a lavoro ultimato – afferma che “a kinda welfare state / now it emanates / used to come from the underground / yes there comes a booming sound / come on undone“. Ciò in cui credono da sempre Mac McCaughan e gli altri protagonisti di questa avventura.
(Matteo Maioli)
ARCADE FIRE, “Funeral” (Merge Records, 2004)
Quanti dischi usciti dal 2000 in poi sono destinati veramente a restare nella storia della musica pop-rock? Molto pochi. Pochissimi. Probabilmente sono e saranno sempre di meno, perché è così che succede adesso con quella che ci ostiniamo a definrie come “musica liquida” ma che invece è semplicemente musica. Questo non significa ovviamente che oggi ci sia meno musica buona che in passato: significa solo che ci saranno sempre meno dischi che riusciranno a emergere tra tutti quanti gli altri e spiccare e brillare di luce propria. “Funeral” è stato ed è ancora uno di questi. Il debutto degli Arcade Fire sublimò in qualche maniera il genere “indie” e ne celebrò appunto il suo funerale, perché da quel momento in poi (o poco dopo) effettivamente “indie” ha definitivamente smesso di significare una cosa ed è diventato altro. Questo disco, drammatico, imperioso, intenso come poche altre produzioni discografiche divenute poi fenomeno di massa a partire da quegli anni in poi, è un pezzo unico. Pubblicato per la Merge, subito oggetto di culto, apprezzato e accarezzato ma non a caso persino da sua maestà David Bowie, del resto qui vi cogliamo difatti gli aspetti più tragici propri dell’alieno caduto sulla Terra, forte di hit indimenticabili come “Wake Up”, questo disco continuerà a significare molto e significherà molto anche per le nuove generazioni.
(Emiliano D’Aniello)
SHE & HIM, “Volume One” (Merge, 2008)
Una starlette del cinema indipendente, Zooey Claire Deschanel e un cantautore di ascendenza folk con una buona carriera solista alle spalle, M. Ward. Si conoscono sul set di American Sunshine ed è l’inizio di un’irresistibile affinità elettiva. Nel 2008 pubblicano per la Merge il loro album di esordio, Vol.1. Melodie che arrivano direttamente dalle spiagge e dalle stazioni radiofoniche dell’epoca dei vestiti a fiori e dei calzoni corti pastello. È un viaggio nella nostalgia che ristagna nell’impasto sognante amalgamato dietro ritornelli radiosi e cori anni ‘60. Da “Sentimental Heart”, dove in chiusa emerge un che di spectoriano, il disco cesella una rilevante quantità di influenze e si erge nel gioco delle citazioni e dei riferimenti al Bubblegum Pop. Un tocco di country, come in “Chance is Hard”, e di surf music nelle chitarre di “I was Made for you”. La voce limpida di Zooey fa pensare a quella di Billie Davies e delle ragazze ye ye. Due le cover, in ambo i casi eseguite in acustico, “You Really Got A Hold On Me” di Smokey Robinson & the Miracles e “I Should Have Know Better” dei Beatles che serba un’impronta di steel guitar hawaiana, mentre “Sweet Darlin” ricorda “Love and Mercy” di Brian Wilson, con il quale il duetto ha collaborato nel 2015. Un disco cristallizzato in una retrospettiva calata fuori dal tempo e che pertanto non invecchia, anche se sono passati 11 anni. La qualità delle registrazioni e l’eleganza delle armonie compensano la leziosità e la poca originalità di cui li si potrebbe rimproverare. L’album perfetto da ascoltare nelle sere d’estate.
(Eulalia Cambria)
CARIBOU, “Swim” (City Slang + Merge Records, 2010)
La Merge non è sempre stata chiusa nei suoi steccati, ma ha in effetti diversificato il suo roster ad esempio con un personaggio importante e trasversale come Dan Snaith. Seppure non eclettica come la Sub Pop, la presenza di Caribou la dice lunga sulla volontà di non ghettizzarsi e di esplorare sonorità diverse.
“Swim” è un disco emblematico in tal senso, crocicchio meraviglioso di diverse strade che si incrociano nelle dilatazioni elettro-psichedeliche di Snaith che prediligono un approccio quasi jazzistico. L’elemento ritmico è fortissimo (in concerto Dan suonava spesso e volentieri la batteria unendosi all’altro batterista) e contaminato da andamenti caraibici (l’eterna “Sun”, “Bowls”), oppure è più minimale (“Found Out”) ma è sempre spiazzante, caratteristica non comune nella musica elettronica.
Su tutto l’elemento psichedelico intrippa un bel po’ e porta l’ascoltatore ad immergersi in un luogo mentale (“Leave House”) che è davvero un peccato abbandonare, una volta visitato.
Un album che ascoltato oggi è cresciuto rispetto a nove anni fa, e che probabilmente lascerà scoprire nuovi lati di sé ancora nel tempo, connotato precipuo dei grandi album.
(Paolo Bardelli)