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Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.
SURF FRIENDS, “Doing Your Thing” (Flying Nun, 2019)
Wow! Voglio dire, ragazzi, questo è veramente un gran bel disco. A parte che era in qualche modo prevedibile, dato che mi fanno notare dalla cabina di regia che questa roba è prodotta e diffusa dalla Flying Nun, un fedelissimo marchio di qualità per chiunque abbia un’anima, e che questi ragazzi, anche se certo di acqua sotto i ponti ne è passata tanta dall’ultimo disco (“Endorphines”, 2013), già avevano dimostrato in passato di sapere fare belle cose. Però qui il duo formato da Brad Coley e Pete Westmoreland nel 2009, cioè i Surf Friends, sorprendono letteralmente con un disco, prodotto da Mark Howden, che è una vera e propria ventata di freschezza e di energia positiva. Qualche riferimento? Ove ce ne fosse bisogno, perché la sola contestualizzazione nell’universo Flying Nun di suo ci fa già pensare subito a un certo tipo di suono e al caratteristico Dunedin Sound e al power pop. Cose che qui ci stanno tutte e pure perché il disco spinge forte sull’acceleratore: “Doing Your Thing” è infatti un album costruito tutto sul suono delle chitarre e sul loro furore elettrico, che ora si combina a puntello con la linea di basso marcata più caratteristica della wave anni ottanta, dando vita a avvolgenti e coinvolgenti momenti estatici come “Keep Me On”, “French School”, “Halfway There”, autentiche “efferatezze” come quelle di “Let’s Go Out Tonight” e gli Yo La Tengo di “A Slow Walk Through Okura”, il sound glamour di “Unwind”, gli REM di “New Wheels” e poi ovviamente Velvet Underground a palla, che potete trovare qua e là e specialmente, è evidente, negli otto minuti gloriosi di “Runners High”, la traccia conclusiva di questo gran bel disco, che rinnova e innova la tradizione della label e segno che da quella parte del mondo, continuano a suonare un sacco di musica buona e che mette assieme qualità, fruibilità del suono e anche originalità.
85/100
LORELLE MEETS THE OBSOLETE, “De Facto” (Sonic Cathedral, 2019)
Anche per la collaborazione con musicisti della scena neo-psichedelica del nostro paese (es. in questo disco suonano Fernando Nuti dei New Candys e Andrea Davì, Mamuthones e Lay Llamas) il nuovo disco di Lorelle Meets The Obsolete ha cominciato a far circolare il nome del gruppo in Italia. In verità “De Facto” (Sonic Cathedral) è l’ultimo capitolo di una storia che va avanti già da qualche anno e che da Guadalajara in Messico aveva già fatto puntate importanti nel nostro continente, presenziando stabilmente nella scena neo-psichedelica europea. Poi non lo so se questa attenzione si possa imputare al fatto specifico che il duo (gli altri componenti del gruppo sono variabili, tra gli altri qui spicca, oltre i due nomi già citati, il tastierista José Orozco Mora) composto da Lorena “Lorelle” Quintanella e l’ “obsoleto” Alberto Gonzalez sia approdato con questo ultimo album a una forma più avvicinabile rispetto a quella psichedelia spigolosa e noise, di cui pure qui permane una traccia in generale nel suono delle chitarre e comunque nelle dissonanze della traccia introduttiva “Ana”, le sferragliate violente di “Unificado” e il fuzz a palla di “Lux, Lumina”, le palizzate di suono di “Resistir”. Però il disco mostra delle varianze, alcune interessanti, vedi l’effettistica drone di “El Derrumbe”, altre francamente molto meno convincenti. A partire dalla fiacchezza della lunga traccia conclusiva, “La Maga”, oppure di “Accion Vaciar”, e poi fino a roba che sembra uscire fuori da un disco dei Beach House tipo “Inundacion”. Il bilancio finale è in attivo, ma questo tentativo di mutazione è mal riuscito e nella sommatoria, parecchio “costoso” in termini di qualità per gli ascoltatori più fidelizzati e intransingenti. Come me appunto. Si può fare di meglio e lo hanno già dimostrato in passato (es. “Corruptible Faces” oppure “Chambers” su tutti).
68/100
ROSALIE CUNNINGHAM, “Rosalie Cunningham” (Esoteric Antenna, 2019)
Rosalie Cunningham, classe 1990, ha sicuramente grande talento: ha una voce molto particolare e che sa “usare” bene e sa scrivere e suonare le sue canzoni. Polistrumentista, già componente e vocalist de gli Ipso Facto e dei Purson, parte del duo Fogie con Thomas Hein, debutta adesso infine con il suo primo LP come solista su Esoteric Antenna, una costola della Cherry Red e dedicata specificamente al rock progressive. Perché “Rosalie Cunningham”, il titolo del disco porta lo stesso nome dell’autrice, è un album che senza dubbio si iscrive a questo macro-genere, portandosi dietro tanto un taglio psichedelico, peraltro messo in bella mostra da una copertina da questo punto di vista particolarmente efficace, tanto un certo manierismo che è giustificato dalla sua bravura, tanto quanto da quella dei suoi collaboratori. Una bravura che però diviene a un certo punto più puro esercizio di stile che espressione di una creatività particolare. Questo disco, ci sta poco da fare, è veramente noioso. Si porta dietro infatti tutti i difetti del genere progressive, quel barocco sempre troppo pretenzioso che finisce per schiacciare ogni vena creativa e astrusità psichedelica, sopprimere ogni acidità, per regalare all’ascoltatore prove vocali sicuramente di grande spessore e eclettismo e arrangiamenti che passano con faciltà da sfumature jazz (“Ride On My Bike”, la teatrale “Riddles And Games” e “Fuck Love”) a accenni Beatles come ad esempio nel caso di “House Of The Glass Red”. Al centro per lo più resta il suono del piano, che si fa sentire con una cadenza molto pesante, vedi ad esempio “Dethroning Of The Party Queen”, così come non manca quella pretesa di esagerare in maniera plateale nel pezzo forse più riuscito, perché questa qui è roba che è fatta specificamente per l’esagerazione, e che poi sarebbe la traccia conclusiva dell’album: “A Yarn From The Wheel”. In effetti è il pezzo che più tra tutti segue non solo il filone del genere, ma riesce a ricostruirne le atmosfere più autentiche, una specie di grande rito di evocazione alle forze della natura con arrangiamenti sontuosi e spettacolosi. Peccato solo che, appunto, tutto sia così tremendamente noioso. Esercizi di stile, quindi, con varianze dal rock progressive a generi come il jazz ed il pop, che mostrano come questa ragazza abbia le “skills” adatte per poter avere evidentemente riscontro presso un pubblico ampio e che non riesco bene a inquadrare. Forse non lo sa manco lei in fondo che cosa vuole fare. In attesa che prenda una decisione, tuttavia, non posso che esprimere il mio totale disappunto nei confronti di questo album di cui non si sentiva affatto il bisogno.
30/100
THE CLAYPOOL LENNON DELIRIUM, “South Of Reality” (ATO Records, 2019)
Si consolida il sodalizio tra Les Claypool e Sean Lennon e che aveva sin dall’esordio attirato per lo più ovviamente le attenzioni degli storici fan del primo, divisi tra chi accoglieva con particolare entusiasmo un nuovo lavoro del proprio mito e chi invece storceva il naso a fronte della collaborazione con il figlio di John e Yoko, finalmente approdato a una maturità artistica a lungo “rinviata”, chi lo sa, apparentemente per un certo disinteresse e probabilmente anche per un approccio all’arte di tipo puramente intellettuale, in linea con il pensiero materno e sfuggendo dal confronto con la “mitologia” Beatles che in qualche modo aveva poi perseguitato il padre dalla rottura con McCartney fino al giorno della sua morte drammatica, l’8 dicembre del 1980. In definitiva, al di là delle critiche più o meno favorevoli ricevute sin da “Monolith of Phobos” (2016) la collaborazione è andata avanti sullo stesso trend e anzi si irrobustisce alimentando quella rievocazione del pop-rock psichedelico anni sessanta-settanta in un campo largo e che oggi trova epigoni tra Flaming Lips, King Gizzard & Lizard Wizard e ripesca anche alcune sfumature pop dei Blur degli anni novanta (in particolare “Blood And Rockets…” oppure “South Of Reality”…). Il basso di Claypool la fa da padrone nella maggior parte dei pezzi, a partire dalla traccia di apertura “Little Fishes”, uno dei pezzi più interessanti e ricchi di inventiva dell’album, dove le accelerazioni rock progressive sono contemperate da una ispirazione “Sgt. Pepper”, ripresa anche in “Easily Charmed By Fools” e “Cricket Chronicles Revisited”. I due comunque si può dire che si divertono, senza volersi dare dei limiti predefiniti, anche se a volte sfociano in una specie di manierismo e pomposità di marchio pinkfloydiano (“Amethyst Realm”) oppure addirittura Queen (“Boriska”) che non piacciono, così come annoiano alcune parti soliste prolungate. Se mi domandate se è un capolavoro, dico, “Sicuramente no”, però “South Of Reality” (ATO Records) ha un certo glamour e una fruibilità indie anni novanta che lo rendono tutto sommato piacevole e avvicinabile senza nessuna difficoltà e questo è un merito.
72/100
THE MURLOCS, “Manic Candid Episode” (Flightless, 2019)
Questo qui è un gran bel disco di garage rock and roll. Nessuna sorpresa, va detto, perché già le precedenti uscite dei Murlocs avevano la stessa verve di questo ultimo album, intitolato “Manic Candid Episode” e uscito per la Flightless lo scorso marzo e che possiede la stessa energia elettrica e il vibe rock and roll blues psichedelico che è marchio di fabbrica di questo gruppo, che si può pure definire come una specie di “costola” dei King Gizzard & Lizard Wizard, dato che due dei componenti, il frontman Ambrose Kenny-Smith (fondatore della band nel 2011) e Cook Craig fanno parte del gruppo capitanato da Stu Mackenzie, che ha prodotto il disco, poi mixato da Jarvis Taveniere dei Woods. Tutti requisiti che attireranno sicuramente l’attenzione di possibili nuovi ascoltatori, mentre a quelli già fidelizzati dall’ascolto degli album precedenti, si possono dare solo rassicurazioni sulla bontà di questo album, la cui forza principale secondo me sta nel fatto di avere la forza non solo di non stancare chi gli si avvicina, ma di aumentare il suo potenziale e il coinvolgimento della platea ascolto dopo ascolto. Del resto, va detto, parliamo di un disco che non disdegna di suonare in una maniera tipicamente garage, riprendendo suoni grezzi e distorsioni elettriche anche anni sessanta-settanta, ma che allo stesso tempo ha un animo “romantico” e adatto ai cuori più sentimentali come nella migliore tradizione del rock and roll infetto di rhythm and blues così come lo si voleva sin dal principio secondo il vangelo di Brian Jones e Keith Richards ecc. ecc. In pratica è un disco dove tutto funziona benissimo: linee di basso marcate e nette, riff di chitarre elettriche a non finire, il deep sound delle tastiere e dell’armonica che arricchisce il vecchio fascino rock and roll, quell’accenno di “fatalismo” glam un po’ derivativo dagli anni sessanta e un po’ anche New York Dolls, ammiccamenti più sul ruffiano nello stile tardo Velvet Underground. Sembrerebbe tutta roba da manuale, ma lo spirito di base è chiaramente quello garage più selvaggio con un tocco di schizofrenia King Gizzard che è inevitabile e che ovviamente non guasta. Suonato bene per suonare peggio di come avrebbe potuto suonare se si fosse voluto farlo suonare bene e ci piace per questo.
78/100
Emiliano D’Aniello
Immagini: Keiichi Tanaami (1936).