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Scontro diretto tra il gruppo australiano di Stu Mackenzie e gli Oh Sees di John Dwyer, una sfida a distanza e che si consuma con la pubblicazione nella stessa data del 16.08.2019 degli ultimi album di due dei gruppi più popolari e fuori di testa in circolazione.
KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD, “Infest The Rat’s Nest” (Flightless/ATO Records, 2019)
Sinceramente non penso che il problema di questo disco sia il fatto che Stu Mackenzie e soci siano troppo prolifici. Questo secondo me non è un problema per nessuno, in generale, e del resto i King Gizzard & Lizard Wizard ci hanno dimostrato nel tempo che ogni loro pubblicazione è accurata e tra programmazione vera e propria e free-improvisation, sempre mirata a un risultato finale con esiti che fino a questo momento non hanno mai deluso. Vale, per inciso, anche per “Fishing for Fishies”, il primo album pubblicato nel 2019 e che non è piaciuto a tutti, ma che invece per quanto mi riguarda conferma le grandi capacità del gruppo e ne esalta l’inventiva, rinnovando in una maniera del tutto anti-convenzionale generi come il boogie e il rock and roll blues.
Qui succede invece che intanto i King Gizzard & Lizard Wizard sono in una formazione ridotta, praticamente un trio, composto solo da Stu Mackenzie, il chitarrista Joey Walker e il batteria Michael Cavanagh, una situazione che è stata per la verità casuale perché gli altri membri erano impegnati con altri progetti o impossibilitati per ragioni personali, ma che si integra con il concept dell’album, perché “Infest The Rat’s Nest” (Flightless/ATO Records) è praticamente un omaggio al genere metal in generale a partire dai riferimenti ai Motorhead e in particolare per il grande vigore e i tempi della sezione ritmica.
Ma c’è di più, se è vero che come Stu stesso ha spiegato, le ragioni del suo interesse nella musica nascono dall’ascolto di musica metal durante gli anni delle superiori. In ordine: Rammstein, Metallica, Slayer, Kreator, Sodom… Tutta roba che gli piaceva un sacco ma che al momento di prendere la chitarra tra le mani, trovava difficile da suonare, costringendolo a ripiegare su rock and roll e garage.
Ci dice che fu liberatorio e effettivamente è così, perché è proprio questa diversa ispirazione di partenza che gli ha permesso e ha permesso al gruppo di assumere quella inventiva e quella concettualità free-form che gli riconosciamo e che qui francamente manca del tutto.
Il disco svaria tra diverse sfumature del macro-genere “metal” nelle sue diverse forme, in maniera più specifica il richiamato trash metal e l’heavy metal: le tracce sono più bravi dello standard King Gizzard & Lizard Wizard e non raggiungono quasi mai i quattro minuti, fa eccezione solo quello che forse è il pezzo più solido del lotto, cioè “Superbug”, che per la verità è anche quello che trovo più ascoltabile. Il resto sono per lo più spacconate di cui non si sentiva effettivamente il bisogno, qua e là vi riconosciamo tratti tipici King Gizzard (es. “Self-Immolate”), ma qui il gruppo si mette una vera e propria maschera, tipica del genere, e forse potrà piacere solo a chi ha questo tipo di ascolti.
Chiaramente apocalittico e negativo nei contenuti, come si vuole, ci sono anche suggestioni fantascientifiche, sviluppate nella seconda parte del disco, che racconterebbe di un gruppo di ribelli costretti ad abbandonare il pianeta Terra e rifugiare su Venere. Roba tipo l’immaginario del grande Robert A. Heinlein, ma neppure questo basta poi alla fine a sollecitare il mio entusiasmo.
40/100
OH SEES, “Face Stabber” (Castle Face, 2019)
Messo faccia a faccia con il mostro, John Dwyer non si spaventa e mostra i muscoli e quel ghigno di chi sa che a questo punto non deve avere più paura di niente.
Questa volta gli Oh Sees superano se stessi e non solo perché “Face Stabber” (Castle Face) è addirittura, udite udite, un doppio LP per un’ora e mezza di musica, ma anche perché il suono del gruppo, qui composto in un ampio ensemble ovviamente al servizio del prode guerriero John Dwyer, non si può qui definire semplicemente come psichedelia garage. C’è una visione più ampia infatti, che si fonda certo sull’imprinting garage psichedelico di base e patrimonio storico acquisito del gruppo, ma quel furore qui si va a distendere e allargare in una dimensione spazio-temporale che sconfina nella kosmische musik e alla fine ti fa considerare che se c’è qualche pubblicazione al giorno d’oggi che possa suonare come un gruppo storico del genere come i Can, questi sono proprio gli Oh Sees.
Quello che poteva e che potrebbe, prima di ascoltare l’album, apparire come impossibile, in fondo ce lo potevamo aspettare: se non altro perché la verve di John Dwyer non è poi così lontana sul piano della visione e delle attitudini da quella selvaggia dei grandi della musica kraut-rock: c’è una elasticità di fondo che è naturale e che se nel caso dei Can risultava dall’attrazione dei musicisti tedeschi per la psichedelia Beatles e dalla fusione con la cultura alta di Karlheinz Stockhausen, maestro di Holger Czukay e Irmin Schmidt, l’ultimo sopravvissuto del mitico gruppo di Colonia, nel caso di John Dwyer ha seguito un percorso differente. Non c’è chiaramente la stessa preparazione di tipo accademico, ma c’è quella formazione esperienziale, che non è quella che tutti definiscono come “accademia della vita”, ma il frutto di una continua tensione accumulata e poi espressa ripetutamente nelle innumerevoli performance sul palco in giro per il mondo e in sala nel succedersi di pubblicazioni discografiche una dopo l’altra.
Naturalmente, come dicevamo, non mancano non manca quel piglio garage e persino post-punk delle basi, ma pezzi come “Gholu” oppure “Heartworm” in sé non sono rappresentativi del contenuti dell’intera opera, ma solo una parte del totale. E il resto sono composizioni che hanno un carattere rock psichedelico che si fonda soprattutto su una sezione ritmica, basso e batteria, che ha quel motorik kraut-rock Neu! e la stessa capacità di allargare, praticamente dilatare i tempi, aumentando così il tempo tra una pausa e l’altra e lasciando suonare gli strumenti.
A questi si alterna stridente il suono virulento, quasi velenoso, delle chitarre elettriche (“Face Stabber”, “S.S. Luker’s Mom”, “Together Tomorrow”…) e a tracci acido tipo MC5, ma pure in questi casi è la sezione ritmica a destare impressione con dei tempi che sfociano anche in forme di tipo jazz e in ogni caso quello che supra ogni barriera del suono sono soprattutto le tastiere.
Poco importa se la durata dei pezzi sia più o meno breve, anche se la capacità di dare luogo a sessioni che possono anche essere mastondotiche come “The Daily Heavy” o “Scutum & Scorpius” (più di quattordici minuti) e fino ai ventuno minuti di “Henchlock”, non si può considerare positivamente. Il fatto è che questo disco è fatto per essere ascoltato e riascoltato. Tutto vero, è una prova di forza, lo ho giustamente definito come “muscolare”, ma questa prova dimostra che non ci può essere una giusta preparazione atletica, senza un allenamento e senza avere forza mentale.
Menzione speciale per la copertina dell’album, in linea con le ultime di “Orc” e “Smote Reverser” e praticamente il disegno riprodotto su un van da Bernd K. Eisenschmidt di un ritaglio di “Swamp Demon” dell’artista americano Frank Frazetta (1928-2010)
81/100
Emiliano D’Aniello
Illustrazioni: Frank Frazetta (1928-2010).