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Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.
KEIJI HAINO + SUMAC, “Even For Just The Briefest Moment / Keep Charging This “Expiation” / Plug In To Making It Slightly Better” (Trost Records, 2019)
Ritornano a lavorare assieme Keiji Haino e i SUMAC dopo il disco pubblicato l’anno scorso su Thrill Jockey. Uno dei grandi della musica rock giapponese, oppure meglio, uno dei più grandi artisti minimalisti della scena rock e alternative contemporanea, guida di nuovo il gruppo americano formato nel 2014 da Aaron Turner degli Isis (completano la formazione il bassista Brian Cook e il batterista Nick Yacyshyn) in questo album pubblicato dalla label austriaca Trost Records e che riprende in parte gli stessi schemi che “American Dollar Bill…”, portandone però all’estremo lo sperimentalismo e fino a sfociare in quella che è una opera di avanguardia eche potrebbe persino avere una connessione con quell’avant-jazz molto spesso proposto dall’etichetta. Il mastering è di James Plotkin, il disco manca in buona parte, eccetto qualche performance improvisa e persino inattesa, della voce di Haino, uno dei tratti distintivi dell’album su Thrill Jockey in effetti e comunque caratteristico dell’artista giapponese, questo a favore di composizioni (lunghissime, quattro in totale) che risalgono al 2017, registrate durante delle sessioni a Tokyo, e che non hanno una forma precostituita, opere minimali quindi, che sembrano recitate secondo la tradizione delle popolazioni anui che abitavano la regione a nord del Giappone, cose quindi in apparenza scomparse, ma poi metabolizzate dalla civiltà conquistatrice. In effetti parlerei di metabolismo in un album che rifiuta la prepotenza del doom metal e invece è un’opera pop-art e noise a tutti gli effetti, costruita su accenni di blues siderali, stacchi taglienti di chitarra elettrica, suoni di basso profondi, distorti e prolungati nel tempo, il minimalismo della batteria e le suggestioni del suono del flauto di Haino. C’è molto nel bagaglio artistico di questo artista, cui non solo la cultura psichedelica deve molto e ogni occasione, anche se non è un fondamentale, merita la nostra attenzione.
66/100
WAND, “Laughing Matter” (Drag City, 2019)
Con questo disco i Wand si allontanano definitivamente dalla sfera sotterranea per approdare a una forma di pop-rock, ovviamente contornato da quelle sfumature tipiche psichedeliche, e proporsi possibilmente come uno dei gruppi più rappresentativi della nuova scena alternative americana. Questa potrebbe apparire come una critica, ma in effetti è semplicemente una constatazione: Cory Hanson, frontman del gruppo (formato anche da Sofia Arreguin, Robert Cody, Lee Landey e Evan Burrows), ha aperto una nuova fase nella storia finora gloriosa del gruppo. Da adesso tutto è diverso da quello che avete ascoltato precedente e questa svolta, in maniera diversa, perché i tempi e i presupposti sono diversi, ricorda un po’ quella dei Wilco dopo la pubblicazione di “A.M.” e di cui ho scritto proprio di recente su queste pagine. Come Jeff Tweedy e compagni allora si lasciarono alle spalle la storia gloriosa degli Uncle Tupelo, qui i Wand compiono un salto simile e ne divengono dei prosecutori. Forse, chi lo sa, persino gli eredi. “Laughing Matter” è un disco pop che si colloca in una dimensione importante. Il marchio Wilco è più o meno presente ovunque (vedi “Walkie Talkie”, “Thin Air”, “Rio Grande”, “Jennifer’s Gone”…), così come la propensione emotiva Radiohead in canzoni come “Scarecrow”, “xoxo”, “High Planes Drifter”, che sono elementi che costituiscono un po’ la base di questa nuova fase del gruppo, che però per fortuna ha una sua storia molto coraggiosa alle spalle e che li spinge in lunghe sessioni di psichedelia come “Airplane” tipo Charalambides e ovviamente VU e soprattutto sa virare con quelle sterzate di distorsioni Pavement che sono fondamentali per dare al disco una sua plasticità (“Wonder”, “Evening Star”, “Lucky’s Sight”…) e nella ricerca di un proprio format unico e riconoscibile. Ci possono ancora lavorare su, forse la lungaggine è uno dei difetti di questo album, perché non ne fa materiale di consumo ricorrente, siamo apparentemente davanti a una svolta invece che un bivio, ma non c’è male per ricominciare.
74/100
THE PSYCHOTIC MONKS, “Private Meaning First” (Vicious Circle, 2019)
Questi ragazzi sono veramente tosti. The Psychotic Monks sono un quartetto formato da Arthur Dussaux, Clément Caillierez, Martin Bejuy e Paul Dussaux, vengono dai sobborghi di Parigi e hanno da poco pubblicato questo secondo disco per la Vicious Circle, un’etichetta francese di Bordeaux. Intitolato “Private Meaning First”, il disco secondo gli intenti del gruppo si ispira concettualmente a una narrazione distopica orwelliana e visioni decadenti e suggestive dei dipinti di Francis Bacon. Sono stati avvicinati variamente a gruppi degli anni ottanta e in particolare invitabilmente Public Image Limited oppure Joy Division, ma probabilmente restando legati al contesto della wave, hanno più qualche cosa dei Pere Ubu più estremi e schizofrenici. Del resto, tuttavia, se pure c’è una attitudine free-form, che si configura in sferragliate noise, eredità della no-wave e del contesto newyorkese poi esploso negli anni ottanta in forme diverse con i Sonic Youth, io sinceramente definirei il gruppo come un quartetto di garage psichedelia: sono in effetti una forma avanzata di che cosa i BRMC avrebbero potuto essere, se solo fossero stati brutti, sporchi e cattivi o comunque magari una forma di compromesso tra il mitico gruppo americano e gli A Place To Bury Strangers, prima ancora come se il fantasma ubriaco di Syd Barrett avesse cantato e suonato la chitarra con gli MC5. Va bene, questa cosa non è mai successa e forse questo disco non sta tutto qui. In effetti è un’opera in tre atti: la prima si apre con suggestioni drone strumentali per poi aprire a ossessioni noise elettrificate e richiami post-punk, fino a una specie di garage rock sotterraneo Suicide, con pezzi che in più casi si prolungano fino a sette-otto minuti; la seconda parte è composto da psycho-blues allucinati e qualche ripresa di riff di chitarra nello stile di Syd Barrett (quello di “Piper At The Gates…”) inseriti in contesti noise tipo Sonic Youth. L’epilogo è un lungo recital blues di quindici minuti, biascicato in maniera ossessiva e ipnotica, trascinata fino al moltiplicarsi di riverberi e eco in un crescendo slow-motion accompagnato da un suono di basso vigoroso come alcune registrazioni post-industrial, sferragliate di chitarra metalliche e fino a quello che è puro e semplice fragore noise ampiamente soddisfacente e senza nessuna regola. Segnatevi, perché siete davanti a uno dei dischi di rock and roll più tosti di quest’anno 2019.
81/100
THE BUDOS BAND, “V” (Daptone, 2019)
Campioni della Daptone Records, sotto la cui egida sono sin dagli esordi, orgoglio di Staten Island, praticamente vent’anni di produzioni discografiche e performance dal vivo potenti, sempre elettrificate e caratterizzate da quel groove tipico della mitica label funky-soul fondata da Gabriel Roth e Neal Sugarman, eppure con un approccio tutto loro e che supera sicuramente i confini del genere. Il suono avant-jazz della Budos Band, quei riff di chitarra carichi di energia elettrostatica a tratti ipnotici, alimentati da fuzz e distorsioni elettrificate e ipnotismi a metà tra l’afro-beat e la psichedelia suburbana più acida grazie al suono onnipresente e vibrante della sezione di fiati, si può definire come inconfondibile. “V” è l’ultimo capitolo ad oggi di questa storia e ci mostra una band perfettamente matura e consapevole dei propri mezzi, che non ha paura di volare alto e che lo fa con quella facilità dei grandi. Il disco alla fine è ordinato, non sfugge una linea tracciata che ne definisce il percorso dal primo pezzo fino alla fine e pure dove il suono si fa più frenetico e grezzo, come vuole la tradizione, questi sanno come rallentare senza sbandare, come se fossero una automobile di Formula 1 guidata da un pilota esperto. Forse qui stanno tuttavia sia i pregi che pure gli stessi limiti, se così si possono definire, di questo album. Voglio dire che difficilmente potrà deludere, perché la sua scorrevolezza è indubbia, scivola via infatti che è un piacere, ma allo stesso modo difficilmente stupisce, se non per la continuità, che in fondo è la stessa della solidità e il vigore del suono e specificamente delle percussioni e del basso, che detta la dura legge del funk-rock psichedelico, fondamentale al compiersi del piano complessivo. Non a caso forse le variazioni sul tema, tipo il piano spaziale di “Ghost Talk”, per fare un esempio su tutti, sono quelli che colpiscono di più. In ogni caso, come gli si richiede e se tanto mi dà tanto, il disco è comunque giustamente fragoroso e quindi bene, benissimo, mai sotto la sufficienza piena. Una delle band più solide in circolazione. Sette.
72/100
THE DANDELION, “Old Habits & New Ways Of The Dandelion” (Blackspin Records, 2019)
The Dandelion è praticamente a tutti gli effetti un progetto solista di Natalie de Silver, che è l’autrice di tutte le canzoni del gruppo e che a parte il batterista Josh White non ha nessun componente stabile. Già riconosciuta con il precedente LP “Seeds Flowers And Magical Powers Of The Dandelion” come una della realtà più interessanti nel campo della vintage psichedelia più floreale, il gruppo nasce in realtà al princpio come side-project di Daniel Poulter dei Dolly Rocker Movement, uno dei gruppi più tosti del revival psych dello scorso decennio. Ma Poulter ha lasciato il gruppo già da cinque anni oramai. Per la verità non è chiaro che fine abbia fatto: secondo Wikipedia, anzi, Natalie de Silver sarebbe proprio lo stesso Daniel Poulter. Ma durante un’intervista Natalie ha voluto mettere i cosiddetti puntini sulle “i” specificando che questa sia solo una suggestione e un errore della enciclopedia libera più famosa al mondo. Va detto al contempo che Daniel, musicista incredibilmente talentuoso e tra i più interessanti del panorama australiano nel genere, è sparito dalle scene. In ogni caso questo non fa che contribuire al fascino tutto particolare di questo gruppo le cui sonorità poi hanno poi unNuovo appuntamento con BRAINBLOODVOLUME : cinque dischi psichedelici. certo fascino esotico, suggestioni qui accentuate tanto dal suono delle chitarre (“Garden of Yhi”, le ballads “De Silver’s Dream”, “Song For All Seasons”, “All I Ever”…) che per le tastiere pop-psichedelia un po’ Jacco Gardner (“Who May Have Gound God”, “The Holy Son”). Sono elementi tipici comunque del sound pop-psichedelico degli anni sessanta, roba che va da rimandi alla west coast tipo “El Poncho Roko” al surf-rock di “Deep Down In The Hollow”, lo yé-yé di “Message From The Fire”. Su tutto, la voce ammaliante di Natalie, che sublima un disco dal sapore vintage e in questo senso sicuramente efficace.
68/100
Emiliano D’Aniello
Foto: Pablo Amaringo (1938-2009)