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Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.
THE UNDERGROUND YOUTH, “Montage Images Of Lust & Fear” (Fuzz Club Records, 2019)
Nessun gruppo come The Underground Youth rappresenta in pieno quello che significa Fuzz Club Records. Fedelissimi alla linea sin dal 2012, anno di debutto della stessa label, negli ultimi due anni il gruppo di Craig Dyer ha ripubblicato per la Fuzz Club anche i primi due LP “Morally Barren” e “Mademoiselle”, completando così l’intero catalogo per l’etichetta londinese e che poi nel marzo di quest’anno si è ancora incrementato con l’uscita dell’ultimo capitolo “Montage Images Of Lust & Fear” cui è seguito un tour mondiale che li ha portati in maggio anche in Italia (Roma e Bologna). È evidente che questo disco si colloca perfettamente sulla scia di tutte le pubblicazioni del gruppo, che è sempre stato il fautore della linea più “oscura” per quello che riguarda le pubblicazioni nel genere neo-psichedelico del vecchio continente e che hanno evidenti riferimenti alla dark-wave della cosiddetta “perfida Albione” del teologo francese Jacques Bénigne Bousset e tristemente divenuta celebre in Italia causa la propaganda fascista dell’inizio del secolo scorso. In effetti è lo stesso rimando a questo infame ventennio, in tutta la sua violenza e decadenza dei valori e del rispetto per la vita umana, che sembra permeare le atmosfere persino macabre di un album che racconta storie che hanno al centro le peggiori pulsioni della natura umana, quelle della violenza e della paura, e l’angoscioso contasto tra il desiderio e la passione e quella incapacità di sentire veramente l’altro. Resta quindi la matrice dark così come quella post-punk, lo stesso titolo può fare pensare a immaginari distopici tipo i racconti di J. G. Ballard, una letteratura violenta oppure il cinema di Cronenberg, che non a caso spesso attinge dalla scrittura dell’autore britannico, ma il suono svolta qui in una diramazione molto interessante e che segna pure una rottura rispetto al passato in un certo senso. Una rottura che, sebbene nel segno di un processo di evoluzione, è per forza brusca e violenta come vuole lo stesso concept alla base del progetto. Se volete un riferimento qui vi rimando non tanto a esperienze strettamente wave, al massimo vi potreste cogliere quella caratteristica teatralità Peter Murphy, ma questo è a suo modo poi nel complesso un disco di post-punk e psichedelia-blues che ha in Nick Cave il suo predicatore principale a partire dagli anni ottanta e le prime esperienze e poi quelle con i Birthday Party. Il suono delle chitarre è tagliente, imperversa su un minimalismo e su quei recital crepuscolari come la peste dentro la scrittura romanzesca del Manzoni, mettendo l’ascoltatore davanti a quella che è la propria personale “colonna infame”. Il disco si mantiene su una intensità molto alta per buona parte delle tracce, mantiene lo stesso carattere febbrile e che a tratti si arricchisce di una vigorosa linea di bassi come in “This Is But A Dream” o si ammorbidisce in ballads stile Simon Bonney (“Too Innocent To Be True” oppure “This Aesthetised World”). Forse solo “I Can’t Resist”, che peraltro è forse il pezzo più “radiofonico” e facile dell’album, appare essere fuori luogo e avere in buona sostanza meno forza espressiva, sembra quasi una specie di revivalismo VU e mancare del coraggio e di quel virulento furore che permea le atmosfere e la tensione del suono del resto delle canzoni. Però il disco è veramente molto bello e conferma la grande qualità di un gruppo che i tutti questi anni non ha forse mai raggiunto vette eccelse, ma ha avuto una costanza incredibile nel mantenersi a alti livelli di ispirazione che pure qui non vengono traditi. Una garanzia nonostante i temi trattati si muovano nel campo delle incertezze più profonde della natura umana e del mondo animale.
76/100
ALAMEDA 5, “Eurodrome” (Instant Classic, 2019)
Jakub “Kuba” Ziolek è un musicista eccezionale: ogni suo lavoro è una rivelazione e ne disvela le sue capacità tecniche e compositive e la sua vasta formazione musicale e culturale sotto ogni aspetto. Alcuni suoi lavori costituiscono peraltro dei veri e propri lavori di ricerca e in ogni situazione specifica sa come e dove intervenire per dare vita alle sue idee. Intanto Alameda 5 è solo una delle molteplici incarnazioni del suo progetto principale (appunto, “Alameda”) e che ha avuto diverse denominazioni a seconda del numero dei componenti del gruppo, variabile a seconda delle occasioni e secondo Kuba preferibile come quartetto dal vivo e come quintetto per quello che riguarda le attività di studio. Ma Alameda è stato anche un duo oppure un trio. Fondamentalmente l’unico collaboratore fisso è il chitarrista e bassista Mikolai Zielinski (completano il roster Jacek Buhl alla batteria e alle percussioni, Rafal Iwanski alle percussioni, Lukasz Jedrzejczak alle tastiere e alle voci) e anch’egli musicista per la verità particolarmente eclettico e preparato. Ma veniamo ai contenuti. “Eurodrome” è un disco che ha una mission ben precisa: cioè quella di raccontare la realtà del continente in cui viviamo. Il fatto che a realizzarlo sia stato un artista polacco, uno dei paesi dell’Europa Centrale, la cosiddetta “Mitteleuropa”, rende probabilmente i suoi contenuti ancora più significativi: lo stesso Kuba ha voluto spiegare come l’album, intanto considerato da egli stesso un passo in avanti rispetto al primo capitolo marcato Alameda 5, guardi all’Europa in una maniera originale, cioè come vero e proprio crogiuolo dei popoli. Ma che cos’era del resto sin dalle origini del tempo l’Europa Centrale oppure pensiamo solo all’inizio del secolo scorso, quando l’Europa “Danubiana” era il centro del mondo e dove si incrociarono i destini di tutto il continente. Ziolek allarga ancora di più i confini, del resto siamo nel 2019 e inserisce all’interno delle tracce delle parti parlate in lingue diverse, il grego, il catalano, il russo, il vietnamita, la lingua tetum del Timor-Est. Si direbbe che il risultato per quelli che sono i tempi contemporanei, chiaramente venati di un certo grigiore e incertezze e tensioni sul piano internazionale e nello specifico per quello che riguarda il vecchi ocontinente, non sia solo una rappresentazione decadente della realtà, ma più una specie di rappresentazione allegorica, il racconto di un grande popolo e che non si stringe evidentemente dentro i suoi confini. Il fatto che il suono sia del resto improntato a quella musica cosmica degli anni settanta e in particolare penso agli Harmonia (“Embryon”, “Cassius”…) così come vi possiamo cogliere riferimenti all’immaginario allegorico “Sgt. Pepper” oppure “Magical Mystery” (“CDTE”), suggestioni hindustani (“Dr Narco”, “Dias melhores”) e Amorphous Androgynous (“Birds Of Passage”, “Roam The Bottom”). A tratti alcune forme di minimalismo sinfonico fanno pensare alla creatività di Mark Hollis dei Talk Talk come nel caso della richiamata “Roam The Bottom” oppure “Mental Militia”, ma la verità è che questo album ha una varietà di suoni che segnano una nuova fase nella musica cosmica e che è lo stesso che una nuova e rinnovata visione dell’Europa, come fu con “Trans Europa Express” nel 1977. Da non perdere.
72/100
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD, “Servants Of The Sun” (Silver Arrow, 2019)
Il solito disco di Chris Robinson e della fratellanza. Un commento diciamo laconico che però dice tutto su questo album. L’ex frontman dei Black Crowes ci presenta l’ultimo lavoro della Chris Robinson Brotherhood come l’esaltazione del collettivo e in pieno spirito tardo-hippie e lasciandosi anche un po’ prendere la mano fa riferimento direttamente al “divino”, una spiritualità reincarnatasi nell’animo del gruppo e che poi avrebbe permesso a Chris (vero nome, Christopher Mark Robinson) e compagni di dare vita a quello che sarebbe il miglior lavoro finora pubblicato: in pratica un set di 10 canzoni perfetto. Tanto che dice che dal vivo tutti i nuovi pezzi faranno sempre parte della scaletta. Il titolo dell’album, “Servants Of The Sun” (Silver Arrow) riassume in qualche maniera questa ispirazione new age e la devozione a questa forma di spiritualismo alto, che però più che tradursi in contenuti che abbiano un carattere dello stesso tipo, è come al solito una collezione di canzoni rock and roll blues che non offre assolutamente nulla di nuovo all’ascoltatore rispetto a quello che fino a questo momento l’autore ha prodotto nel corso della sua carriera. E certo che vanta una produzione abbondante, solo gli album in studio della “fratellanza” saranno tipo almeno una decina. Il gruppo è in buona sostanza lo stesso: c’è Neal Casal alla chitarra, Adam MacDougall alle tastiere, Tony Leone alla batteria. Al centro Chris Robinson, che firma tutte le canzoni (tre sono firmate anche da Neal: “Some Earthly Delights”, “Venus In Chrome”, “Stars Fell On California”) e guida un gruppo che è sicuramente affiatato e che sa come si suona questo tipo di musica. Sì, certo, verrebbe da dire che questo sound rock and roll blues un poco “spaziale” e fin troppo cremoso e con un groove progressive accennato e sfumature funky, sia roba basica, ma è pure vero che in fondo devi essere un professionista per suonare questa roba. Forse anche troppo. I pezzi sfilano uno dietro l’altro come un copione già visto, tra antiquariato tipo i Grateful Dead da antologia e una ventata di rinnovamento pure minimo che può fare pensare ai Wilco più facili. Riff di chitarra rock blues avvolgenti, il sound delle tastiere, una voce accattivante e che può andare benissimo tanto al FIllmore come alla radio e una componente di “gigioneria” tipicamente marcata USA tipo Las Vegas possono convincere tuttavia solo ascoltatori più “pacchiani” o che si sentono legati a una tradizione sonora che in fondo è sempre stata mainstream. Gli riconosciamo la vocazione di fondo tardo-hippie, meglio di tanta altra roba a quel livello che arriva dagli States, ma questo qui è un disco che neppure mio nonno avrebbe considerato come rock and roll alla fine. Non è neppure la musica che avrebbero ascoltato i vostri nonni per fare incazzare i vostri bisnonni. Rassicurante come lo zucchero filato, merita giustamente di essere un prodotto confezionato per una platea apposita e che vuole solo questo. Tanti saluti.
40/100
WHITE MANNA, “Ape On Sunday” (Cardinal Fuzz, 2019)
Uno dei gruppi più “cosmici” della scena rock psichedelica americana, i White Manna di Arcata, California, ritornano dopo un periodo di pausa con un nuovo LP intitolato “Ape On Sunday”, disco che ha avuto una gestazione travagliata e cominciata durante un periodo molto negativo per il frontman David Johnson, costretto a trascorrere un periodo a casa della famiglia in Massachusetts, prima di ritornare a lavorare col gruppo. Al ritorno, comunque, la storia vuole aveva con sé una copia di “Tarantula”, il celebre romanzo sperimentale di Mr Zimmerman, il titolo dell’album è un omaggio a uno degli scritti del libro, così come lo stesso album si può in qualche maniera considerare come un ripetersi dello stesso tentativo fatto da Bob Dylan con questa opera di letteratura e che aveva una chiara ispirazione autobiografica. Così vale per questo album, che vede la band al completo (Tavan Anderson, Andy DuVaall, David Johnson, Johnny Webb) e il ritorno alle tastiere di Mike Dieter. Uscito per la Cardinal Fuzz e con il mastering di Chris Hardman dei Dead Sea Apes, questo è forse il disco meno eterogeneo, ma allo stesso tempo più vario e con più spunti interessanti del gruppo. Vi riconosciamo ovviamente la matrice kraut in pezzi come “Ape On Sunday” soprattutto e poi nel groove spaziale di “Spirit Of St. Louise” e l’impazzimento sonico di “Night In Lisbon”, ma dopo questa “intro”, il disco segna una specie di rottura con il passato. Pezzi come “O Captain” (ma pure la strumentale “Zodiak Spree”) ci introducono in una dimensione lisergica più sperimentale, il pezzo è una specie di recital onirico trasmesso a onde a bassa intensità, il ruolo delle tastiere e il contributo di Mike Dieter è chiaramente fondamentale; i tre minuti di “More More More” ci mostrano una inedita veste sperimentale, quasi free-form e che mette in combinazione il suono cosmico e acido della band con una inventiva Syd Barrett e una sana follia tipicamente psichedelica. La stessa “Eye In The Cloud…” ha una specie di riferimento ai primi Pink Floyd del resto e allo stesso tempo suoni compressi che ci appaiono trattenuti da una claustrofobia di fondo, che appare voler restringere lo spazio cosmico in cui i nostri si muovono e che ha quasi un fondo di “nichilismo” (riscontrabile pure nei toni di “Night In Lisbon”) o che comunque trasmette inquietudini inedite. Secondo me è un buon disco in definitiva e che apre spiragli nuovi per un gruppo veramente tostissimo, ma che effettivamente a un certo punto finiva con il riproporre sempre la stessa formula. Manca una continuità forse, ma si può spiegare con le innovazioni proposte e la gestazione complessa, questo è un limite, ma a questo punto anche una possibilità che il gruppo è chiamato a cogliere per il futuro. In bocca al lupo.
66/100
GOKCEN KAYNATAN, “Cehennem” (Finders Keepers, 2019)
Una delle “cause” giustamente prese a cuore dalla Finders Keepers negli ultimi anni è stata rilanciare la figura di Gokcen Kaynatan, musicista fondamentale per quello che riguarda la scena del cosiddetto “Anatolian Rock” e quindi uno dei fondatori della musica pop e rock and roll turca. Non solo. Kaynatan fu anche uno sperimentatore, il suo lavoro andava ben oltre quello che si può definire semplicemente il ruolo di musicista. Egli fu un pioniere sia come compositore che come producer per quello che riguarda la musica elettronica in Turchia e che egli stesso introdusse sin dagli anni settanta e poi dando vita nel corso degli anni a esperimenze sempre più coraggiose. Nel dicembre 2017 la Finders Keepers aveva pubblicato un LP eponimo per la serie “Anatolian Invasion” e contenente nove tracce registrate tra il 1968 e il 1982, un arco di tempo particolarmente ampio e che comunque ci davano una prima idea del tipo di suono sviluppato da Gokcen nel corso degli anni: uno sviluppo dell’elettronica minimalista, combinato al suono della chitarra e uso caratteristico di loop di batteria pre-registrati. Si tratta di uno sperimentalismo minimal quindi, ma efficace, ascoltabile e chiaramente con imprinting psichedelico e dei caratteri esotici tipici dell’immaginario geografico e culturale dell’Anatolia. Questa seconda pubblicazione, intitolata “Cehennem”, contiene invece tre tracce registrate tra il 1973 e il 1975, composte interamente da Gokcen e oggetto di un lavoro intenso di studio su un EMS Synthi KS comperato a Colonia nel 1972, praticamente lo stesso strumento che è stato esaltato in quegli anni da Jean-Michel Jarre nelle sue produzioni più pop e che è stato fedelmente adoperato da Franco Battiato fino a oggi. I suoni segnano l’apertura di una nuova fase nella musica rock psichedelica turca e chiaramente improntata a un modello di composizione cosmico più colto e meno pop rispetto alle registrazioni di “Gokcen Kaynatan” che hanno un carattere più pop, pescando da elementi beat e retrò anni sessanta e sfumature progressive più semplici. In un certo senso egli preleva una vera e propria costola dalla musica sperimentale tedesca della fine degli anni sessanta, quella di Klaus Schulze, e ne fa una rivisitazione quasi accademica, discreta e con un forte contenuto emotivo e personale. Non è musica del resto che ha alcun carattere pop, ma che ha una componente spirituale e allo stesso tempo quella cura e dedizione alla causa, che segnano quella impronta della cultura analogica che è allo stesso tempo anche umanistica nella creazione di una nuova forma di linguaggio. Nello stesso tempo Gokcen lavorava come compositore per la televisione turca, una attività che gli andava forse stretta sul piano creativo e della pura espressione artistica personale: “Cehennem” significa letteralmente “inferno” e “Anjiyo” è “angioma”. Gli fu diagnosticato un tumore al cervello e durante il periodo di cura che conseguì l’intervento chirurgico, rimodulò completamente queste registrazioni e che solo adesso escono fuori da un archivio restato “sotterraneo” per troppo tempo. Ci svelano un artista che era allo stesso tempo più che un cultore, un vero e proprio appassionato maestro nella manipolazione dei suoni. Una scoperta che vale quanto quella della tomba di Alessandro IV di Macedonia a Verghina in Macedonia, figlio di Alessandro Magno e di Rossane, ucciso dodicenne assieme alla madre dall’ambizioso e privo di scrupoli reggente Cassandro. Classico e drammatico allo stesso tempo. Suggestivo.
75/100
Emiliano D’Aniello
Immagini: Matteo Guarnaccia.