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“Norman Fucking Rockwell” è un momento di rivelazione per Lana Del Rey che, in una veste critica e possente, si erge con un disco che stralcia definitivamente i panni della poetessa maledetta e la afferma come artista completa. Nelle sue parole, a partire dai testi di “Venice Bitch” o “Norman Fucking Rockwell”, c’è il senso enigmatico del saper rappresentare un’era.
Tramite un percorso di cinque album è stato spesso troppo semplicistico il modo in cui Lana è stata rappresentata da molti: l’etichetta della malinconia come sintomo passeggero, adolescenziale non ha mai tenuto conto di un universo di ispirazioni che tocca influenze da decenni artistici e musicali come gli anni ’70 o gli anni ’90. Nelle voci e nel piano di questo disco c’è la forza creativa che starebbe benissimo in una scena finale di un qualche episodio di Twin Peaks 3.
Il suo sguardo è una nuova delineazione dei limiti “dell’American Dream”, un suono che si perde nei sapori e nel mito perduto della California distrutta da incendi e dalle cadute di storiche icone. “Norman Fucking Rockwell” può dialogare benissimo per attitude e temi con “Once Upon a Time in Hollywood”, la voce della Del Rey è una soundtrack alternativa all’universo californiano raccontato da Quentin Tarantino.
La narrazione delle icone spezzate e di una storia americana che è più incerta che mai, fa emergere in tutta la sua forza il songwriting di Lana, che riesce a dare un longilineo filo narrativo a tutto il disco. La forza di “Norman Fucking Rockwell” è nell’essere netto in passaggi come: “My baby used to dance underneath my architecture/ He was ’70s in spirit‚ ’90s in his frame of mind/ My baby used to dance underneath my architecture/ We lost track of space/ We lost track of time” in cui si gioca con le influenze dirette del disco, oppure nel misticismo, con dei forti richiami al passato, di “Happiness is a Butterfly”: “Do you want me or do you not?//I heard one thing, now I’m hearing another/Dropped a pin to my parking spot/The bar was hot, it’s 2 AM, it feels like summer”.
Il soundscape, sapientemente plasmato dalla mano di Jack Antonoff, è elegante come il disco live “Miles of Aisles” di Joni Mitchell: la malinconia c’è ancora, ma è scatenata in una forma libera, senza barriere artificiose.
“Norman Fucking Rockwell” è legato ad un racconto personale degli USA; lo storyboard di citazioni e collegamenti tra album, discografia di Lana e realtà è impressionante.
Lana Del Rey si è trasformata, nella sua ricerca di una “mitologia dei nostri giorni”, in un vero simbolo della canzone contemporanea.
84/100