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Sono uno dei pochi, credo, a ritenere che la carriera di Liam Gallagher dopo gli Oasis, abbia preso una piega migliore di quella di Noel, che considero disastrosa, nonostante tutti, me compreso, ci saremmo invece aspettati il contrario. Cioè che proprio il fratello più grande invece, che de facto aveva sempre scritto tutte le canzoni del gruppo, si sarebbe potuto rilanciare in un format più maturo e superare quel brit-pop che aveva letteralmente sfondato alla fine degli anni novanta.
Le cose sono andate diversamente e direi che è tanto merito di Liam quanto colpa di Noel, che si è voluto dare questo tono tutto serioso e che è finito con il fare dei dischi che considero assolutamente inascoltabili (se non peggio). Il minore dei Gallagher invece ha cominciato con i Beady Eye, con cui ha pubblicato due dischi (migliore il secondo, “BE”, uscito per la Columbia Records nel 2013), prima di intraprendere nel 2017 la carriera solista e pubblicare il suo primo LP “As You Were” per la Warner. Quel disco secondo me è stato un disco veramente forte. La mia non è partigianeria, ma pure senza offrire nulla di nuovo, il disco staccava di molto il tanto esaltato “Who Built the Moon?” (Sour Mash) che usciva proprio nello stesso periodo, ricevendo critiche molto positive.
Così è normale che a distanza di due anni, Liam riprovi la stessa formula che il precedente. Per questo nuovo album intitolato “Why Me? Why Not.”, praticamente una doppia citazione di John Lennon (il titolo di due suoi dipinti), ha voluto lo stesso producer (Greg Kurstin) oltre che David Aldred e soprattutto Andrew Wyatt, che se nel disco precedente aveva firmato con Liam e Kurstin il pezzo “Come Back to Me”, qui praticamente ha collaborato attivamente a ogni fasi creativa del progetto.
Se il primo disco mi era piaciuto, c’erano quindi tutte le premesse per una buona riuscita anche in questo caso (almeno secondo il mio giudizio) e in effetti il disco non è un disastro totale. Lo definirei persino piacevole: lo stile è quello solito mutuato dagli Oasis, i riferimenti il brit-pop anni sessanta, la cultura british anni sessanta, il mod revival.
Peccato tuttavia che dopo averlo ascoltato ripetutamente, io non riesca a fare nessuna distinzione tra un pezzo e l’altro: sembra proprio come fossero mandate in loop 11 tracce (più tre bonus) pre-registrate. Il disco è quasi qualche cosa di “algoritmico”. Poi ovviamente un paio di pezzi sono più o meno meglio degli altri, che so, la ballad decadente “Meadow” oppure la bonus-track “Invisible Sun” che ha qualche cosa che sembra tirato fuori da “The Masterplan”, la mitica raccolta di b-sides e che in fondo è stata il meglio della produzione di un gruppo che dava il meglio di sé nella sua forma più grezza. Qui ad esempio, infatti, ci sta troppa “levigatura” e si sente.
58/100
Emiliano D’Aniello