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Settembre è sempre un mese molto particolare per chi la musica l’associa con gli stati d’animo.La fine dell’estate, la fine delle hit e dei ritornelli catchy, le prime piogge e i relativi dischi da ascoltare in sottofondo mentre ci si dedica alla procrastinazione nel mentre si torna alla normalità. C’è una categoria di dischi, nella mia personale divisione mentale, che non ricoprono nessun genere di quelli cosiddetti precostituiti, ma rientrano tutti nella categoria “cose che avrei scritto nella mia cameretta, se fossi stato capace”.
Il nuovo disco di (Sandy) Alex G, all’anagrafe Alex Giannascoli natio di Philadelphia ma con origini abruzzesi, rientra appunto in questo scompartimento della mia libreria. Con la perenne etichetta di astro nascente (all’attivo 7 album, gli ultimi 3 per Domino Records) di quella fetta di cantautorato che deve tanto, forse troppo ad anime gentili come quella di Elliott Smith e similari, finalmente il chitarrista, conosciuto dagli addetti ai lavori per le sue collaborazioni con personaggi del calibro di Frank Ocean (sue le parti di chitarra nella magistrale “Self Control” in “Blonde”), decide di proporci un prodotto che non risponde a nessun gusto in voga nell’ultimo periodo, niente autotune, niente testi catchy a base iPhone e storie di Instagram, ma con la delicatezza e la voglia di trasmettere un messaggio mai del tutto univoco, piuttosto facilmente malleabile in base al nostro immaginario e al nostro mood.
Se “Walk Away”, prima traccia del disco, è un sunto di quello che ci aspetta, quattro accordi e tre parole piegati come fosse carta da origami e capaci di creare qualsiasi forma nella nostra testa, il resto dell’album si srotola, ad un primo ascolto, in un mosaico di colori opposti e sconnessi tra loro. È un disco di non facile ascolto, ma che ha delle sue melodie uno dei punti di forza. “Gretel”, traccia più famosa (devo un ringraziamento all’algoritmo di Spotify) ti sfida a non stamparti in testa il ritornello “I don’t wanna be back / nobody can push me off track” o la litania di “Near” nel mezzo della decomposizione e ricomposizione di riff folk con l’aggiunta di un additivo elettronico che avvicina il cantautore italo abruzzese a quella frangia di artisti (Frank Ocean, Elliot Smith, Beck, il John Frusciante solista in “A Sphere in the heart of slilence”) che hanno fatto della commistione il loro pezzo forte.
Un disco che merita di essere ascoltato con i testi davanti, per riuscire ad immedesimarsi ancora di più nello storytelling dell’artista. Passare dalla campagna del sud degli Stati Uniti a contemplare gli sterminati paesaggi che ci si stagliano davanti, rimuginando sugli addii e gli errori commessi (“Southern Sky”, “Cow”, “Crime”) alla tempesta emozionale capace di dipingere un mondo all’interno di una camera da letto (“Project 2”, “Gretel”) o all’agorafobia generata dalle metropoli.
“House of Sugar” non è un disco facilmente digeribile ed ha bisogno di un background complesso per essere degustato, masticato e assimilato. Sandy si sta ritagliando la sua fetta di pubblico, una generazione che attraverso internet crea e distrugge idoli per i loro drammi e come un treno marcia spedita verso un futuro che, visti gli ottimi presupposti di “House of Sugar”, avrà quasi sicuramente una colonna sonora per i finali amari che la vita, a differenza dei film, spesso può riservarci.
77/100
(Riccardo Ricci)
foto in home TONJE THILESEN