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Uno dei più grandi musicisti che io abbia mai ascoltato, non ha mai finito di scrivere una sola canzone, una, e non ha mai pubblicato. Lo ho sentito suonare una sera in un piccolo locale giù nel centro della città. Stava solo con questa chitarra, indossava gli occhiali da sole e teneva lo sguardo perso nel vuoto. Faceva suonare le note in una maniera tutta sua particolare, il suo era un blues sotterraneo e senza nessuno schema predefinito, recitava i testi in inglese a bassa voce, biascicava le parole una dietro l’altra in una maniera incomprensibile. Ripeteva lo stesso verso per interi minuti. In effetti non c’era niente di speciale in tutto quello che faceva e non trasmetteva nessuna sensazione che si potesse definire come “piacevole”. Era un atto drammatico. Dentro ci stavano tutti quei caratteri “tragici” che hanno a che fare con la incapacità umana di riuscire a trovare se stessi. Quanto più scaviamo a fondo, tanto più il conflitto diventa grande e la comprensione impossibile. La solitudine è qualche cosa che quando c’è, te la senti addosso pure se stai in mezzo a un sacco di gente. Né più né meno. Sì, fa specie raccontare che ci si possa sentire così in una grande città e nel mondo globalizzato e dove siamo tutti quanti connessi l’uno con l’altro ventiquattro ore su ventiquattro. Se la raccontiamo così, la cosa appare persino come affascinante. Ma la realtà non è mai come vorremmo raccontarla.
Non mi piace la poesia e non mi piace la fotografia. Ovviamente non sono due verità inconfutabili. Però queste due forme d’arte trasmettono due sensazioni differenti che però sono la stessa: la prima è qualche cosa che finisce prima ancora che possa essere, la seconda è già finita, è la rappresentazione di una “natura morta”. Non c’è vita dentr o una fotografia, non è la stessa cosa che dipingere: quello ha un carattere esperienziale più marcato, dentro ci sta una profondità che è stata letteralmente scavata a fondo in una maniera più o meno consapevole, più o meno efficace, mobilitando la natura artigiana dell’essere umano. Lo stesso vale per la poesia: come se potessimo stimare l’esistenza di una vita intera in poche frasi e la vita non è solo un esercizio di memoria. Dentro c’è molto di più.
Francesco De Gregori diceva che Piero Ciampi le migliori canzoni le lasciava scritte a penna sulle tovaglie delle osterie, parole perdute in mezzo alle macchie di vino che restavano dopo avere consumato il pasto. Lo ho letto da qualche parte un po’ di tempo fa. Ci vuole una sensibilità speciale per riconoscere il talento e penso che questa considerazione, fatta da parte di chi abbia raccontato la storia del nostro paese dal dopoguerra ad oggi come forse nessun altro, dia un’idea della dimensione del cantautore livornese. Però è difficile riconoscere il talento nelle persone e amare quelle persone in quel momento e cercare di abbracciare questa specificità, fare che questa diventi qualche cosa di condiviso. Come è impossibile stabilire una empatia reciproca con i grandi geni, parlo di menti superiori e che spesso appartengono a chi è affetto da forme di autismo e questa, lungi da essere una affermazione discriminatoria, è il riconoscimento di determinate caratteristiche e peculiarità del cervello umano: una macchina imperfetta, eppure proprio per questo unica.
Questo musicista comunque era nudo: aveva costruito su di sé così tante sovrastrutture, che alla fine quella che aveva messo sopra a tutte, era la “verità”. Solo che questa non poteva essere condivisa, non significava libertà, perché poi sotto ci stavano tutte quelle altre costruzioni, che costituivano una specie di barriera tra lui e gli altri. Mi sono domandato se sapesse veramente che cosa significhi amare e essere amato e ho pensato che comunque il suo limite era lo stesso che abbiamo tutti quanti e che per questo ci rifugiamo in quella che chiamiamo comunità, perché è questa che dà delle risposte ai nostri bisogni, non puoi andare fino in fondo senza condividere.
Ci sono persone che passano così la loro intera esistenza: vivono su una linea di confine come fanno gli equilibristi sul filo. Da una parte ci sta la “comunità”, quelli che lo guardano possono provare forme di empatia. Ce la farà, non ce la farà. Ma molti non lo guardano neppure. Dall’altra parte c’è il nulla. Quella empatia ha senso per chi guarda, ma la vita non è mai un monologo. Si adottano forme di comunicazione naif per trasmettere quello che non riusciamo a capire. Questo può significare incomprensione da parte degli altri, oppure “comprensione” e questo è molto importante, perché significa che il messaggio è stato recepito e questo ti fa sentire, non solo capire, la grandiosità dell’essere umano e le sue infinite potenzialità. Eppure, nonostante tutto, anche davanti a questa grandezza, io non riesco a fare a meno di domandarmi quanto questo abbia veramente significato per la persona che lo ha lanciato: continuo a pensare a questa persona sospesa su di un filo e a quello che c’è dall’altra parte e a questo continuo stato di tensione, che mi rende insopportabile il tempo “presente” e cui invece ci dovremmo stringere abbracciandolo come la cosa più preziosa che abbiamo.
Emiliano D’Aniello