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Distante dalla dimensione distorta di “Star Wars”, “Schimlco”, che pure ha origine dalle stesse sessions del disco diffuso a sorpresa l’anno prima, ne è in un certo senso un corrispettivo speculare. La svolta del 2016 che ha visto la band di Chicago abbandonarsi a melodie soffici e ballabili, dalla struttura lineare esente da spigolosità e sprazzi folgoranti, ha fatto discutere la critica che ha ravvisato un cedere il passo rispetto alla vena sperimentale, quasi a prefigurare una sorta di involuzione.
A legare in una stretta morsa i dischi usciti a breve distanza c’è la stessa ironia divertita nella scelta delle copertine: un gatto bianco associato al titolo della saga di fantascienza più famosa e un artwork affidato al genio di Joan Cornellà che riassume in chiave caustica la sua visione della musica. Ma le soluzioni compositive hanno finito per prendere strade opposte. È così che in “Schimilco” – nel cui titolo con un gioco di parole si palesa un richiamo a “Nilsson Schmilsson” di Harry Nilson” – il ripiegamento folk investe il vissuto interiore di Jeff Tweedy e si traduce nelle liriche che proiettano verso l’infanzia: “Normal American Kids” ad apertura, con il suo incedere cadenzato, racconta con toni sferzanti di contrasti mai risolti: “Always hating normal American empty summer days”. La caratterizzazione del tutto acustica si insinua con movenze beatlesiane nelle dodici tracce costituendo la cifra stilistica predoniminante dei brani più riusciti. “If I ever was a Child” trasforma in estatica dolcezza la nostalgia e la malinconia, centrale in “Cry All Day”. Più infastidito e pertanto declinato in movenze noise “Common Sense” che esprime una presa di distanza dalla società: “At the moment I’m bored, buried more and more and more”.
A spiccare negli ingredienti dell’album ci sono l’irresistibile incedere di “Someone to Lose”, con il suo giro di basso, l’allegrezza malinconica di “Happiness” e il divertito disincanto parodico di “We aren’t the World (Safety Girl)”. Con “Schimlco”, il loro decimo album in studio, i Wilco percorrono una strada che non osa in direzione sperimentale ma che rappresenta l’attestazione definitiva di una raggiunta maturità. Il lavoro discografico imprime, pur senza i guizzi e le trovate dei migliori album precedenti, la caratura artistica del gruppo attraverso una forma intimistica morbida risolta nella cura dei testi e nelle armonie delicate. Il disco, che segue quasi la forma di un racconto in cui sono disseminati brani circoscritti e definiti di un dialogo personale che Tweedy intrattiene con il suo pubblico, ritaglia in uno scenario agrodolce e sornione spezzoni di melodie memorabili.
75/100
(Eulalia Cambria)