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Bene o male, l’importante è che se ne parli. E di Joker di Todd Phillips, vincitore del Leone d’Oro alla 76esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia non si è smesso un solo istante di parlare sin dal 31 agosto, giorno in cui il film, il regista e il cast sono sbarcati al Lido.
Innegabile che l’operazione sia interessante, e che per la prima volta dopo la trilogia di film di Christopher Nolan si sia tornati ad avere in sala sia il pubblico infatuato dalla grandiosità dei cinecomic, sia quello alla ricerca del cinema d’autore.
Joker non è assolutamente un cinecomic: definirlo tale significherebbe minimizzare un prodotto di qualità largamente superiore ed incasellarlo in un genere che con tutte le sue forze il regista vuole rifuggire. Eppure, per quanto si sforzi, questo film non è neppure cinema d’autore, non ne ha le potenzialità narrative, linguistiche e registiche, ha solo uno straordinario attore, Joaquin Phoenix, del cui talento qualcuno – che probabilmente non ha mai visto The master di Paul Thomas Anderson, giusto per citare un titolo – ancora si stupisce.
Joker segue la genesi del più eclettico e affascinante dei villain in circolazione nell’universo DC Comics.
Arthur Fleck è un uomo disturbato, deriso e brutalmente bullizzato. Vive con la madre Penny che l’ha soprannominato Happy per quella risata che non è una sua peculiarità, ma un inquietante sintomo della sua malattia. Arthur lavora come clown e sogna di fare il comico, ma nessuna di queste professioni sembra fare per lui. Licenziato per aver portato un’arma sul posto di lavoro, e aggredito in metropolitana, con ancora indosso la divisa e il trucco, da alcuni giovani distinti che fredda con una scarica di colpi di pistola, Arthur decide di dare una svolta alla sua esistenza e di non restare più fermo a guardare.
Philips mette in scena un completo rovesciamento delle parti dove i personaggi che sono sempre stati considerati “i buoni” diventano “i cattivi”. Gotham è una metropoli come tante in cui regna il malcontento ed il degrado, in cui gli uomini sono insoddisfatti del loro stile di vita e sentono il bisogno di protestare contro il loro nemico comune, il miliardario Thomas Wayne che da poco ha annunciato la sua candidatura a sindaco di Gotham.
Arthur, in seguito al suo atto criminale, diventa involontariamente il simbolo di una rivoluzione, l’incosciente portatore della sola radicale soluzione ai problemi della città. La maschera del clown, la maschera di Arthur Fleck è il cambiamento, è il testimone che ci si passa per dare vita alla rivoluzione.
Ciò detto, è palese quanto l’iconicità del nome di Joker sia in realtà solo un pretesto per parlare di una realtà che con i fumetti ha poco a che vedere. Ed è qui che inizia a farsi sentire la forzatura: perché questo film non avrebbe potuto semplicemente intitolarsi Arthur, il clown? Gotham non è connotata, Batman è solo un bambino di dieci anni, l’eclettico cattivo perfido e delirante è ridotto a un emarginato annebbiato dall’uso di psicofarmaci, nulla ci riconduce a quello che ci si sarebbe aspettati di vedere sullo schermo.
Che il lavoro di Phoenix sul personaggio sia enorme ed impeccabile è un dato di fatto. Se paragonato al carisma, alla fisicità e alla follia interiorizzata dei Joker di Nicholson e Ledger, quest’ultimo è una stupefacente sorpresa: repellente, goffo, segnato dalla sofferenza nel fisico e nella mente, leggiadro solamente quando cerca di avvicinarsi all’uomo che sogna di essere – lo showman di successo –, abbandonato da tutti, persino da quella madre che ha sempre sostenuto di amarlo e che, invece, per prima è stata la causa del suo malessere.
Ma questo approfondito studio di un “Joker diverso” non basta, soprattutto perché una grande rivoluzione di vedute e contenuti, una denuncia cinica e dirompente dell’oggi e della sua corruzione non possono essere portate sullo schermo da un singolo attore, per quanto immenso esso sia. Servono una struttura forte, una regia sapiente, un’immagine provocatoria e disturbante.
Phillips e la sua macchina da presa sono perdutamente innamorati del personaggio del loro film, lo venerano e non osano oltrepassare quel limite che li spingerebbe verso il rischio.
Se fa tutto Phoenix, noi ci limitiamo a stargli dietro, questo sembra urlare quel contorno che lo spettatore vaglia grossolanamente e valuta con troppo superficialità perché attratto dal clamore di un’eccelsa prova attoriale.
Ed è così che l’ossessiva e poco originale citazione di Scorsese – a tratti irritante – viene considerata un graditissimo omaggio. Il citazionismo è colto, è adulatorio, è accattivante, ma quando se ne abusa finisce con il denotare solamente l’incapacità di guardare oltre.
Taxi Driver e Re per una notte non avevano alcun bisogno di essere appiccicati malamente su un film del 2019 che, se solo avesse voluto affrontare il pericolo e sporcarsi le mani, avrebbe potuto davvero avvicinarsi a quel capolavoro che si sente esaltare a destra e a manca.
Una cosa è certa: Joker passerà alla storia, e senza avere troppi meriti. Phoenix vincerà l’Oscar meritandolo, e se non lo vincerà si aprirà una nuova polemica che non farà altro che incensare una seconda volta un film che con un altro attore, in un altro momento storico, e con un pubblico più educato alla visione sarebbe stato classificato per quello che è. Un film discreto, con idee interessanti sviluppate solo superficialmente.
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