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Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.
ROBYN HITCHCOCK, ANDY PARTRIDGE, “Planet England” (Ape House, 2019)
Ricordo di aver letto una intervista dieci-quindici anni fa a Robyn Hitchcock, dove raccontava di avere un rapporto difficile con gli altri musicisti. Cioè che praticamente gli riusciva difficile instaurare collaborazioni durature con una band stabile, perché probabilmente gli altri musicisti trovavano la sua figura troppo ingombrante. Così spiegava il perché del cambiamento delle varie line-up che lo hanno accompagnato sin dagli esordi con i Soft Boys e poi lungo tutta la sua carriera. A parte questo, non si può dire che comunque Hitchcock non abbia avuto negli anni collaborazioni eccellenti e mantenuto dei buoni rapporti con musicisti come Grant-Lee Phillips oppure un autentico gigante della storia della musica pop-rock come Peter Buck. Evidentemente il problema è semplicemente quello di trovare il giusto feeling e questo EP intitolato “Planet England” costituisce una valida prova in questo senso. Il progetto nasce da lontano: Andy Partridge (XTC) e Robyn Hitchcock avevano cominciato a scrivere dei pezzi assieme già nel lontano 2006. I due vantano una intesa che scava non solo nella comunque origini dal contesto post-punk britannico ma pure nella passione comune per la psichedelia degli anni sessanta-settanta, citano non a caso come principali riferimenti tre “B” come Syd Barrett, Beatles e Captain Beefheart e un po’ a questi nomi guardano anche nella realizzazione di questo dischetto. Ci sono dentro quattro canzoni. Lo stile è quello di Hitchcock e che pesca nell’immaginario barrettiano ma con quel suo modo che ci appare invero sempre più composto e troppo “quadrato”. Il contributo di Partridge, peraltro, non sembrerebbe affatto limare questo aspetto e forse contribuisce ad appesantire il lavoro che suona effettivamente veramente troppo pop radiofonico anni ottanta. La traccia peggiore del lotto e la più significativa in questo senso è sicuramente la title-track: un pezzo che ha quel sapore “vaporoso” anni ottanta e che ha una pesantezza insopportabile. Dispiace perché Robyn Hitchcock ha scritto veramente delle bellissime canzoni, ma i suoi tempi migliori appaiono lontani. Ad occhio l’ultimo sussulto risale a “Tromson, Kaptein” del 2011, ma comunque dopo “Eye” (appunto) e che risale al 1990, la qualità complessiva dei suoi lavori non è sempre stata così buona come vorremmo pensare. Forse uscire da un certo isolamento, anche sul piano mentale e concettuale, potrebbe costituire una svolta, ma sarà meglio guardare altrove rispetto a una figura come Partridge che ci appare isolata in una remota galassia lontana e che metaforicamente somiglia tanto alla storia dell’Inghilterra degli ultimi cinquant’anni e fino ad oggi. Il disco è uscito per la Ape House di Andy.
30/100
TRUPA TRUPA, “Of The Sun” (Glitterbeat, 2019)
Avevo scritto dei Trupa Trupa nel primo “capitolo” di questa rassegna dedicata alla musica psichedelica e in occasione della pubblicazione del loro LP del 2017 “Jolly New Songs” (Blue Tapes/Ici D’Ailleurs). Il gruppo polacco, capitanato da Grzegorz Kwiatkowski, fa un ulteriore salto di qualità e dopo un passaggio, udite udite, su Sub Pop per la pubblicazione dell’EP “Dream About” (2019) sbarca in casa Glitterbeat con il nuovo LP “Of The Sun”, prodotto da Michael Kupicz e contenente 12 tracce che ne confermano la specificità del suono. In fuga dal rock psichedelico che ne ha caratterizzato le prime pubblicazioni, i Trupa Trupa (un quartetto formato appunto da Grzegorz Kwiatkowski,Wojciech Juchniewicz, Rafal Wojczal, Tomek Pawluczuk) confermano la vena shoegaze e quella post-rock che li avvicina per talune sfumature ai campioni del genere, ma a una minore intensità, ma accentuano quella che li avvicina a esperienze alternative degli anni novanta, fino a illuminare con l’ultima traccia dell’album (“Satellite”) delle luci dentro la nebbia come facevano alcune tracce del caro vecchio sound dei Nirvana. Manca chiaramente quel furore tipico di Cobain, quella stessa irrequietezza, per un gruppo che riesce a dimostrare sempre un grande stile mantenendosi a una velocità costante. Non c’è nulla di rabbioso nel sound di questo gruppo che ha un carattere che riprende quella “acquiescenza” mitteleuropea e la contempera con lo stile post-hardcore e wave di gruppi come i Wire, una avanguardia la cui frenesia sta nelle vibrazioni dei suoni più che in scatti improvvisi: si distingue il vigoroso suono del basso, l’uso sovente di distorsori per la voce, un certo ipnotismo di base, bassa fedeltà, spirito libertario. Sembra un disco fuori dal tempo comunque, cacciato fuori dagli anni ottanta-novanta e in ogni caso dall’altra parte dell’oceano oppure dalla Gran Bretagna: sicuro non ti aspetteresti che questo gruppo provenga dall’Europa dell’est, sebbene, va detto, siano stati molti i gruppi soprattutto in terra d’Albione che guardavano a determinati caratteri della regione negli anni, probabilmente influenzati dal fascino delle produzioni in terra tedesca di David Bowie, roba tipo “Low” oppure “Heroes” che dalle sensazioni di quei paesi avevano pescato a piene mani. Sensazioni finali: è un disco però sufficiente. Sinceramente non ci sento nessun colpo particolare, il gruppo ha stile ma stile non significa necessariamente classe e se questa c’è, qui non appare concretizzarsi neppure in sperimentazioni che non sono così ardite come vorrebbero sembrare.
60/100
WHITE SHAPE, “Perfect Dark” (Little Cloud / Cardinal Fuzz, 2019)
Bel disco perfettamente allineato alle produzioni marcate Little Cloud / Cardinal Fuzz, a seconda se siate da una parte oppure l’altra dell’Oceano Atlantico, di questo gruppo proveniente da Rockford nell’Illinois e che si affaccia al grande pubblico per la prima volta dopo il debutto due anni fa con il primo dischetto intitolato “Chromesthesia”. Loro sono i White Shape (Kayla Hall, Josh Weidman, John Phelan, Alyssa Hall, Ryan Hovland) e il disco si intitola “Perfect Dark”. È un album di rock psichedelico e che in otto tracce (sette + una bonus track) sviscera una gamma di sensazioni differenti tra loro, dimostrando una ecletticità interessante, per quanto il lato più accattivante, cioè quello delle pistolettate di “Tumbleweed” che esalta una linea di basso vigorosa e potente, e le sciabolate soniche ricche di riveberi e eco di “Autumn Reds”, ceda per lo più il passo a sfumature shoegaze e dreamy che hanno meno potenza sul piano espressivo. Dimostrano al contempo un certo stile e la capacità di mettere in piedi dei lunghi set di quella che si potrebbe definire come “white music” nelle prolungate dilatazioni del suono di “Perfect Dark”, “Relativity”, che ha una ispirazione quasi bucolica, la celebrazione di una liturgia naturalista, “Worn” che ha una lunga coda elettrificata, tutte quante con ampio spazio alle parti strumentali e un uso della voce ricco di eco che ne amplificano le atmosfere soffuse, la sensibilità intrinseca. Si distingue tra i tanti pezzi, la nenia “A Cave, A Candle, And Your Pupils”, quasi slowcore, ma pure la ballad “God Particle” (la bonus track) mostra un certo vigore, per quanto abbia forse la struttura più lineare e semplice dell’intero lotto.. Insomma, è un bel disco, con una connotazione melodica e tante idee messe a cuocere che sono pure differenti tra di loro. Il gruppo in effetti si presenta come una specie di “comune” e dove ciascun elemento contribuisce a modo suo a dare una propria caratteristica alo sound del collettivo. L’idea è buona ma secondo me l’amalgama va rafforzato lavorando in una direzione univoca. Per ora il voto è comunque più che sufficiente, sarà interessante seguirne l’evoluzione.
63/100
REV REV REV, “Kykeon” (Fuzz Club Records, 2019)
Convince a metà questo nuovo LP dei modenesi Rev Rev Rev, che approdano su Fuzz Club Records, rinnovando il legame della label londinese con la scena neo-psych del nostro paese. Il gruppo intitola il terzo album “Kykeon”, che scopro essere una bevanda psichedelica ottenuta miscelando diversi ingredienti e che si consumava durante i cosiddetti “Misteri Elusini”, riti misterici che si celebravano nell’antica Grecia. Tutto molto suggestivo dunque e titolo azzeccato per un album che ha effettivamente un carattere oscuro e sotterraneo e ha i toni decadenti di un mystery thriller tipo un best seller di Dan Brown. Che può tanto essere un punto di forza quanto un limite. Vediamo perché. Intanto in cabina di regia ci troviamo il solito James Aparicio e la produzione è al solito di James Plotkin; lo stesso Aparicio si unisce peraltro al gruppo (formato dal frontman e autore di tutti i pezzi Sebastian Lugli, oltre che da Andrea Dall’Omo, Greta Benatti, Laura Iacuzio) e suona nel disco le percussioni, oltre che firmare con Lugli e Laura Iacuzio uno dei pezzi, cioè “Sealand”. Prende parte alle registrazioni anche Tatiana Scalercio, già collaboratrice del gruppo e che suona il tanpura. Il disco parte molto forte, i primi due pezzi per me sono i migliori del lotto: con “Waiting For Godel”, “Clutching The Blade” i Rev Rev Rev si presentano da subito innalzando delle autentiche palizzate di suono rudimentali e con un furore Singapore Sling molto convincente. La seconda traccia poi introduce il leit-motiv dell’intero album, la ripetizione ossessiva di temi “thrilling” e che a partire da “3 Not 3” e poi via via per tutte le tracce dell’album, diventa il tema di fondo su cui vengono costruite tracce che hanno un sound massivo e aggressivo e che gradualmente scema fino a una forma di shoegaze tipo My Bloody Valentine: soprattutto “Adrift In The Chaosmos”, uno dei pezzi migliori, anche se mi piace a questo punto fare una segnalazione che definirei curiosa dato il contesto. Cioè che uno dei brani dell’album, “One Illusion Is Very Much Like Another” mi ha ricordato per il suo carattere ossessivo e ripetitivo un pezzo incredibile come “Bathysphere” di Bill Callahan/Smog dal disco “Wild Love” (Drag City, 1995). Sono sincero, alla lunga però il disco non convince così tanto: i giri di basso virtuosi molto dark-wave e questi riff di chitarra ripetuti in maniera ossessiva come nella tradizione del genere, l’esagerazione nell’uso di “vapori” finisce per stufare e in tutto questo casino, ti domandi un po’ il gruppo effettivamente che fine faccia. Come se si fosse nascosto dietro una coltre di fumo, mettendo questa davanti a se stessi. Sembra tutto molto artefatto e artificiale e artificioso. Prevale la forma sul contenuto. Manca cattiveria, questi ragazzi non tagliano come potrebbero veramente.
65/100
SINGAPORE SLING, “Killer Classics” (Fuzz Club Records, 2019)
“Killer Classics” non ci esalta solo perché Henrik Bjornsson e i Singapore Sling ci hanno abituato fin troppo bene. Il gruppo di Reykavik sta in qualche modo alle radici della ondata neo-psichedelica che è scesa sul nostro continente e si è poi consolidata via via negli anni fino a divenire un vero e proprio movimento, per un certo periodo una “moda”, adesso una realtà diffusa e forse meno vibrante e originale rispetto al passato in molte sue proposte, che si raccolgono in larga parte (per quello più a ampia diffusione) attorno alla Fuzz Club Records, etichetta di cui peraltro il gruppo islandese è affiliato in maniera fedele sin dalle origini e alla cui fama ha contribuito in maniera pesante e influente e per quanto riguarda Bjornsson nello specifico pure come componente del super-gruppo Dead Skeletons. In generale comunque, va detto, il livello delle produzioni Singapore Sling è sempre stato alto e questo vale anche per questo LP, che magari non raggiunge le vette di altri lavori precedenti, ma neppure segna una qualche specie di declino per un suono tipicamente “fuzz” che ha sempre la stessa forza nichilista e violenta degli inizi. Dopo un’ottima doppietta come “Psych Fuck” (2015) e soprattutto “Kill Kill Kill” (2017) ecco quindi il decimo capitolo di questa avventura pysch-rock dal carattere piratesco e che mi sembra non sia stato accolto con il dovuto entusiasmo. Non lo so, forse è passata di moda in qualche modo pure l’Islanda dopo un certo richiamo sul piano culturale a tutti i livelli che questa isola aveva avuto in tutti i campi. Poi non lo so probabilmente sono uno di quelli che si potrebbe definire come “fedelissimo” del gruppo e del grande talento di Bjornsson, ma nessuno suona questi psychobilly slow-motioned scritti da punk dell’ex DDR e con il carattere sotterraneo Suicide e una distorsione che farebbe impallidire pivellini come Jesus & Mary Chain e My Bloody Valentine. I pezzi di questo album sono quindi a loro modo dei “classici” della produzione Singapore Sling: loop e mantra ipnotici come “Suicide Twist”, “All The Way In”, “Highway Reject”, “Switchblade”, “Underground Man”, il thrilling lisergico di “Lynchbilly”, “It’s a Hit”, ballad sexy come “Sugar and Shit”, “Nothing Matters but Rock’n’roll”, più un paio di episodi più estremi come “Dub Swirl” dove effettivamente il gruppo si spinge oltre e non supera le barriere del suono, ma praticamente le crea, innalza delle solide mura che emanano scariche elettrostatiche così potenti e vibranti, fitte, che si possono toccare con la mano e non possono essere attraversate. Ci puoi camminare in verticale su per parecchi chilometri verso l’alto, giù per parecchie miglia dritto all’inferno. Poi lo sperimentalismo di “Confusion Then Death” in parte memore delle lezioni indimenticabili e indimenticate Spacemen 3 oppure Brian Jonestown Massacre. Singapore Sling: ogni volta è un piacere sottile, quasi autolesionista, beffardo. Quello che hai quando scamazzi la cicca della sigaretta ancora fumante sull’asfalto col tacco della scarpa.
76/100
Emiliano D’Aniello
Illustrazioni: Jon Weinel.