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“For us, there is no spring. Just the wind that smells fresh before the storm.” (Conan the Barbarian)
PRANA CRAFTER & TAROTPLANE, “Symbiose” (Beyond Beyond Is Beyond, 2019)
Split album pubblicato lo scorso agosto di Prana Crafter, moniker di Will Sol e TarotPlane (PJ Dorsey). Il legame tra i due in effetti si crea durante le registrazioni dell’ultimo album di Will, “Enter The Stream” (Cardinal Fuzz/Sunrise Ocean Bender Records, 2018), artista che in questi ultimi anni è stato particolarmente prolifico e l’anno scorso con il su citato album e “Bodhi Cheetah’s Choice” (BBYB, 2018) ha letteralmente stupito con la sua psichedelia cosmica con eco pinkfloydiane e quella dedizione e cura dei dettagli che riconosciamo a musicisti come Ben Chasny. L’occasione fu propizia per l’incontro artistico tra i due musicisti, che qui si dividono lo spazio su questa pubblicazione BBYB. La prima parte è una lunga composizione di Prana Crafter divisa in due parti, intitolata “Jagged Mountain Melts at Dawn” e dove il chitarrista e multistrumentista rivela tutte le sue capacità nel creare dilatazioni del suono che guardano a uno spazio che ha qualche cosa di metafisico: c’è un carattere sciamanico nel suo trattare le onde sonore che diviene contemplazione e allo stesso tempo esplorazione, esercizio di respirazione, inspirare vita e rilasciare quella che potremmo definire come spiritualità in un ciclo infinito. La sensazione di questa lunga cavalcata di rock psichedelia dal carattere vintage e tra primitivismo americano e David Gilmour e che guarda al gamelan, pure senza strumentazione, ma ricercando quella stessa allegoria interiore, è quella di ritrovarsi immersi nei boschi dello stato di Washington cui Will Sol è particolarmente devoto e guardare non tanto attorno a sé, quanto verso l’alto fino a vedere la luce del sole filtrare tra le fronde degli alberi. Dorsey ritaglia il suo spazio in cinque parti. “We Move Slowly Through the Past” è tra reminiscenze Ry Cooder e lo stesso primitivismo, forme di blues, arpeggi trasversali si incrociano tra di loro in sequenze e un continuo susseguirsi di accelerazione e decelerazioni. L’eco dei suoni prodotti si accresce sempre di più in questo scombussolamento nucleare e bombardamento di elettroni fino a prodursi in forme di kraut-rock a bassa intensità: l’esplosione di suoni è sommersa, come se riprodotta sott’acqua oppure come se ci arrivasse lontana come l’eco di un olocausto nucleare distopico che si abbatte sulle rive delle coste di Baltimora. Più dedicata alle inquietudini che alla contemplazioni, la “metà” di TarotPlane completa idealmente la prima rendendo compiuta la stessa simbiosi del titolo.
71/100
JULIAN COPE, “John Balance Enters Valhalla” (Head Heritage, 2019)
John Balance (vero nome, Geoffrey Laurence Burton) è morto nel novembre del 2004 a causa di una caduta dal balcone di casa. Aveva avuto una vita difficile causa problemi di natura psicologica, gli fu diagnosticata anche la schizofrenia, e in particolare di ubiachezza, una dipendenza che lo accompagnò fino al momento della sua morte. Principalmente conosciuto per essere stato il fondatore e il frontman dei Coil (ma non si contano le sue collaborazioni con gruppi importanti come Psychic TV, Current 93, Death In June…), Balance era sempre stato affascinato da esoterismo, misticismo e religione. Sciamanesimo. A quindici anni dalla sua morte l’arcidruido, Julian Cope, lo accompagna fino alle porte del “Valhalla”, la sala del regno dei morti presieduta da Odino, facendogli omaggio di una di quelle lunghe ballate che ne caratterizzano la sua produzione artistica e che costituisce il cuore di questa opera uscita lo scorso agosto e composta da cinque tracce. Caratteristica rispetto alle produzioni solite di Julian Cope, “John Balance Enters Valhalla” (Head Heritage, 2019), è un album per lo più solo strumentale: l’unica traccia cantata è la prima, “Sandoz”, una specie di litania gracchiante dal taglio post-punk e con ipnotismi dati dalla linea costante di basso e il suono elettrico dell’organo e delle chitarre. Seguono tracce di carattere sperimentale psichedelico e allucinato, la lunga “Positive Drug Test”, una autentiva UFO version di musica cosmica intrisa di visioni orrorifiche tratte dal cinema di Mario Bava e alieni dallo spazio profondo che sparano raggi cosmici dalle pupille degli occhi; la title-track, la processione verso il Valhalla di John Balance che è raccontata come un autentico viaggio epico tratto dalla mitologia nordica in uno scenario intriso di fantascienza distopica. Seguono il cabaret ossessivo decadente suonato al piano e il minimalismo di batteria e altra strumentazione di “John Valour”, presentato alla presentazione del disco come una combinazione tra il glam rock e roba tipo Lamonte Young e John Cale. Il disco si chiude infine con un ultimo saluto a John prossimo a raggiungere le sale del padre Odino poco meno di cinque minuti di distorsioni spazio-temporali elettriche e fuzz di chitarra, riverberi su una sezione minimale di batteria e basso. Qui, giunti alla fine del nostro viaggio, l’arcidruido si congeda dal suo vecchio compagno di battaglie e lascia Asgard, per lui non è ancora il momento di restare e prepararsi al Ragnarok, ha ancora troppe cose da fare quaggiù e da svolgere il suo ruolo messianico e di tramite. Il voto al disco non è altissimo, non è sicuramente un lavoro di alto livello, ma si premia il carattere eccentrico al solito di Julian Cope che – non potrebbe essere altrimenti – resta imprevedibile, sempre concettuale e autore di scelte originali che se non altro finiscono almeno con il catturare la curiosità dell’ascoltatore.
65/100
MOON DUO, “Stars Are The Light” (Sacred Bones, 2019)
Il fatto che questo disco dei Moon Duo di Ripley Johnson e Sanae Yamada guardi alla disco-music non stupisce, perché sicuramente questo progetto ha sempre avuto una connotazione marcatamente pop rispetto ai Wooden Shjips. Agli inizi parlai di “divertissment”, perché in fondo trovato che questa forma semplice, minimal e più pop fosse meno pregnante dello psych Wooden Shjips, probabilmente è così, però bisogna dire che con il passare del tempo il duo ha cominciato a ottenere un riscontro e un seguito ben maggiore rispetto che quello del gruppo “principale” di Johnson. Molto più sul pezzo per quello che riguarda i gusti e l’estetica, molto più accessibile sul piano dei suoni, il progetto Moon Duo sin dall’inizio ha proposto una musica psichedelica facile, rumorosa ma allo stesso tempo ricca di armonie e ammiccante e in alcuni passaggi della produzione discografica, persino sofisticata al punto da competere, su di un piano differente, con roba più indie-pop tipo Beach House e da questo punto di vista con argomenti ben più convincenti e un look a metà tra quello vintage anni sessanta-settanta e sfumature dark dal connotato Baudeleire. Detto tutto questo, il duo (in verità un trio: il terzo elemento è il batterista John Jeffrey) ha guadagnato negli anni il giusto credito: alcuni passaggi della discografia sono più interessanti che altri, la doppietta del 2017 è significativa in questo senso (il primo volume di “Occult Architecture” è brutto, il secondo è molto buono), ma questo disco qui dimostra che pure se si vuole solo musica pop (qui si parla specificamente di “disco”) si può fare un buon lavoro con poco. Ispirato a elementi di sound funk anni settanta e alla rave degli anni novanta, le due epoche che hanno fatto la storia della disco, “Stars Are The Light” (Sacred Bones) per quanto in parte ripetitivo (ma questo non è necessariamente un difetto, quanto una scelta specifica) è un disco convincente. Bisogna entrare, si intende, nello spirito giusto di non richiedere a questo gruppo di fare musica rock psichedelica oppure addirittura kraut-rock: determinate definizioni sono completamente fuori luogo. Resta l’ispirazione di base, lo stato di trance indotto e i suoni a parte che essere di ottima qualità (lo dico tra parentesi, senza che ci sia bisogno di aggiungere altro: il mixaggio è di Peter Kember aka Sonic Boom) hanno gusto nelle scelte con reminisenze “macarena” (“Flying”), minimalismo pop elettronico (“Stars Are The Light”), sessioni lounge con chitarre westernate (“Fall In Your Love”), tocchi di sensuale decadentismo (“Fever Night”), roba tipo se i Talking Heads suonassero oggi su dei loop John Carpenter (“Eye 2 Eye”) e nel complesso un mucchio di groove makossa e vibrazioni synth. Non è il disco dell’anno, ma fa ballare come pochi altri usciti in questo periodo.
74/100
TEMPLES, “Hot Motion” (ATO Records, 2019)
Nuovo disco dei Temples, il gruppo di pop psichedelia del Northamptonshire di James Edward Bagshaw, Thomas Warmsley, Sam Toms e Adam Smith e che ha catturato i favori del pubblico e della critica con “Sun Structures” (2013) e il più accattivante “Volcano” del 2016, tutti e due pubblicati dalla Heavenly Recordings. Passati alla ATO Records, i quattro di Kettering pubblicano questo nuovo album intitolato “Hot Motion”, annunciato sin da subito come un successo, pure dopo il riscontro positivo ottenuto dal singolo eponimo e pezzo di apertura dell’album, una canzone pop dallo stile glamour e lascivo e costruita su una specie di loop sintetico e al solito memore della lezione dei campioni del genere pop-psichedelico di questo decennio, gli australiani Tame Impala. Diciamo che se questo, come è stato presentato dal gruppo, costituisce il pezzo forte dell’album, per quanto mi riguarda le premesse non erano sicuramente positive e infatti il disco, va da sé, è di una certa insufficienza. La ricerca del compromesso tra il contemporaneo mondo della pop-psichedelia che in maniera trasversale guarda a quella più avanguardista dei Tame Impala e quella più personale, ma comunque eccentrica, tipo Jacco Gardner, e la ripresa del sound della west-coast (caratteristica principale del precedente album “Volcano”, il disco più “americano” tra i tre pubblicati finora dal gruppo) e comunque di quello stile tardo-sixties di derivazione Beatles resta il tema principale e tutto canalizzato alla ricerca di soluzioni facili e accattivanti e che possano fare facilmente presa sugli ascoltatori. Ne sono un esempio evidente pezzi come “You’re Either On Something” oppure “Not Quite The Same”. L’obiettivo potrebbe pure essere centrato, ma il tema ricorrente di questi tempi è sempre di più quello che il momento più alto è in fondo costituito dal “prima” dell’uscita dell’album e della sua diffusione e a una fintamente trepidamente attesa, corrisponderà un rapido declino e la dimenticanza della maggioranza delle persone che avrà ascoltato questo disco che in quella ricerca di compromessi finisce con il suonare in una maniera persino “pacchiana” e che fa pensare a eccessi anni ottanta con pezzi come “Atomise” e “The Howl” che sono oggettivamente di cattivo gusto, la seconda in particolare con l’uso di sintetizzatori e suoni che sono vaporosi ma nel senso di vacui, fumo senza arrosto. Questi sono sicuramente la cosa peggiore del disco e molto peggio pure che canzoni assolutamente innocue come “Holy Horses”, “The Beam”, uguali a mille e mille altre di gruppi pop britannici oppure anche italiani e pure di format che consideriamo “commerciali” o comunque mainstream. Resta un certo gusto anni ottanta se è vero che ascoltando canzoni “Context”, “It’s All Coming Out”, “Monuments”, la rock psichedelia sembra incontrare pop anni ottanta tipo Eurythmics. Il principio che muove le gesta di questo gruppo è il successo a tutti i costi, questa è la verità svelata, ma il disco è brutto e se non è proprio un crollo totale, è solo perché questo tipo di suoni non prestano il fianco a questo tipo di possibilità. Resta insufficiente, magari meglio al primo ascolto, forse pure al secondo, ma al terzo già ti domandi perché dovresti continuare a ascoltarlo e la risposta non c’è.
50/100
THE SILENCE, “Metaphysical Feedback” (Drag City, 2019)
Quarto album in poco meno di cinque anni per The Silence, ennesimo progetto di quel genio musicale che corrisponde al nome di Masaki Batoh. Già autore di un album solista pubblicato a inizio anno sempre su Drag City, Batoh e i suoi compagni di gruppo (Yamazaki Taiga, voce e basso; Okano futoshi, batteria; Ryuichi Yoshida, fiati) ci propone questo nuovo album intitolato “Metaphysical Feedback” realizzato con la collaborazione del tecnico del suono Yoshiaki Kondo e pubblicato al solito per la label di Chicago, con cui ha un rapporto privilegiato e che ha una predilizione per questo tipo di suoni rock psichedelici con venature progressive, tanto che del resto gli stessi Ghost sono sempre stati tra il fiore all’occhiello del materiale diffuso pure come “ristampa” negli ultimi anni. Registrato al solito in format analogico, il gruppo si presenta rispetto al passato come quartetto e orfano del tastierista Kazuo Ogino (anche lui ex Ghost) e dando spazio a tutti i componenti per quello che riguarda la composizione dei pezzi. Yamazaki ha scritto e canta “Yokushurui”; “Lightning Struck Baby Boom” è stata scrita da Okano; Yoshida ha composto “The Crystal World” e “Tautology”. “Surrealist Waltz” è un pezzo dei Pearls Before Swine del 1967: Tom Rapp in persona, prima di morire, ha riscritto parti del testo per adattarlo a questa nuova versione del gruppo registrata per l’occasione. Non è una sorpresa, chi conosce la grande dell’esponente di punta del gruppo, il grande Masaki Batoh, sa che qui andiamo sul sicuro e che ci troviamo per forza davanti a un disco di grande potenza espressiva e che ha un sound che rompe ogni schema e in maniera trasversale incrocia dal rock psichedelico al progressive anni settanta fino all’avant-jazz. Fortemente acido, il disco si apre con “Sarabande”, pezzo che subito dimostra la capacità di questo ensemble di sapersi muovere con una maestria unica all’interno di un piano compositivo che non si pone nessun limite. Il pezzo comincia con un arpeggio di chitarra e il cantato sussurrato ma altamente espressivo, derivazione della tradizione popolare giapponese, che la voce qui non è bellissima eppure sicuramente performante, la linea di basso sembra esplodere a ogni stacco fino a quando si apre una deriva elettrica progressive e divampano i suoni della chitarra solista e la magia del flauto in una estasi sinfonica. “Freedom” ha un taglio aggressivo post-punk, il suono acido del sassofono rimanda a esperienze glamour, il Bowie berlinese, momenti di art-rock e no-wave, ma gli arrangiamenti nella solita accelerazione finale divampano in un jazz progressive mescolato a un blues sidarela con tanto di armonica a bocca, prima del finale sempre in perfetto stile “Station To Station”. È un disco di suoni all’avanguardia, il math-rock e il progressive con la forza del suono dei fiati e mirabili sezioni di basso, i tempi asincroni della batteria esaltano “Tautology”, il jazz progressive con influenze post-punk ipnotiche tipo PIL di “Lighting Struck Baby Born”, il minimalismo jazz di “Yokushurui”, invece esaltato dal flauto più che dal sassofono. Ha un carattere più esotico e che richiama un certo progressive più facile un pezzo come “Okoku”; la versione di “Surrealist Waltz” rende omaggio a Tom Rapp e Pearls Before Swine nel migliore dei modi possibili, ridando letteralmente vita a un classico della storia del rock; “The Crystal World” è un’epopea sinfonica che richiama quasi un immaginario fantasy: il vibrato delle tastiere e il suono dei fiati costruiscono il motivo del tema principale in un crescendo denso di drammatismo. Una volta finito il disco è impossibile non restare letteralmente estasiati da questo gran finale e sul livello del resto dell’intero lavoro discografico che ripropone la grandezza di Masaki Batoh, un nome (così come la intera parabola dei Ghost) ingiustamente poco conosciuto dal pubblico e mai giustamente riconosciuto dalla critica. Uno dei dischi dell’anno.
83/100
Emiliano D’Aniello
Illustrazioni: Anselm Kiefer (“Walhalla”, 2016)