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Il quarto appuntamento del nostro viaggio alla scoperta degli Anni Dieci.
Tra le varie domande che ci siamo posti per riflettere sulla fine del decennio, non poteva mancare la classica indagine sui progetti più rappresentativi di questi anni 10. Dopo qualche consultazione redazionale, ecco sette nomi che secondo Kalporz rappresentano degnamente quello che è successo nel corso degli ultimi dieci anni. Certo, sette nomi sono pochi e alcune assenze gridano vendetta, ma abbiamo voluto tenere fede alla classiche Top 7 kalporziane e offrire una visuale ampia, che comprendesse dalla black music al pop e alle sperimentazioni elettroniche. Buona lettura.
Le altre puntate degli speciali sugli Anni Dieci le potete recuperare qui:
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 1
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 2
– I live memorabili degli Anni Dieci
–Le perdite degli Anni Dieci
KENDRICK LAMAR
FRANK OCEAN
BON IVER
A volte può bastare una canzone per descrivere un’epoca. Uno strumming di chitarra acustica ipnotico e un falsetto straziante che emerge dal più gelido degli inverni. “I am my mother’s only one / It’s enough / I wear my garment so it shows / Now you know / Only love is all maroon / Gluey feathers on a flume / Sky is womb and she’s the moon”.
Vociferazioni disegnano visioni di nature morte ma allo stesso tempo pulsanti dentro uno scenario apocalittico di redenzione: il cielo è un grembo, ci sono corde che bruciano, gli specchi d’acqua sono deformati dal vento, i laghi sciabordano come folli diffidenti. Lo scorrere delle chitarre si interrompe di colpo, la canzone collassa su sé stessa, una bufera elettrica di arpeggi spezzati è il preludio di un buco nero di silenzio difettivo che inghiotte tutto. Paura e sogni, tradizione e sguardo al futuro, tecnica ed emozioni. Bon Iver è lo specchio in frantumi dei nostri tempi.
(Emmanuel Di Tommaso)
TAME IMPALA
Gli australiani Tame Impala sono stati protagonisti assoluti della scena musicale del decennio che sta per concludersi. L’operazione fatta da Kevin Parker e i suoi non era facile: aggiornare ai giorni nostri la psichedelia dei sixties senza scadere nel puro revivalismo in maniera da renderla accattivante per le nuove generazioni. Così nel debutto “Innerspeaker”, e soprattutto nel seguito ancora più riuscito di “Lonerism”, i Beatles di “Magical Mistery Tour” e le filastrocche stralunate alla Syd Barrett vengono arricchite dai synth dal sapore anni ’80 e da batterie dal suono caldo e incisivo.
Il risultato convince un po’ tutti: dai vecchi nostalgici della psichedelia ai giovani hipster. La decisione di abbandonare il lato più rock e chitarristico è quella che invece ha dettato la linea dell’attesissimo “Currents” che, se è andato bene a livello di vendite e consensi, lascia per strada molta della verve della band in nome di una sorta di lounge-disco music da bar alla lunga ripetitiva. Tuttavia siamo consci del genio di Parker.
Cosa ci porterà il nuovo decennio?
(Eulalia Cambria)
SOPHIE
“That’s really the audience I’m interested in communicating with – not ‘only’, but definitely the main focus of my interests. Playing to a crowd who are so free of inhibitions, wanting to have experiences that can actually change something fundamental in the way that people want to live.” Così SOPHIE raccontava del suo rapporto con la musica e con la performance, in una intervista per i-D di qualche tempo fa. Ed è proprio questo rapporto di convivenza tra autrice e fruitori dell’opera il punto dal quale bisogna partire per capire la produzione di SOPHIE.
Artista misteriosa fino a qualche anno fa, che si divideva tra una produzione per Madonna, inquetanti campagne marketing per fittizi energy drink e la decostruzione della club culture, ha cominciato a mostrarsi al pubblico con l’uscita del suo primo album, “Oil of Every Pearl’s Un-Insides”. Un disco che seppur uscito in coda al decennio attraversa e vive gli anni ’10 in tutta la loro potenza e le sue contraddizioni, passando dalla tenerezza di “It’s Okay to Cry” all’ode furry/BDSM di Ponyboy”: “Spit on my face/ Put the pony in his place/ I am your toy/ Just a little ponyboy”.
Quello che eleva SOPHIE dalla massa di musicisti e producer dediti a raccontare il proprio tempo è forse l’estrema corrispondenza tra forma e contenuto della sua opera musicale (a livelli che forse il solo Arca riesce ad avvicinare): se i suoi brani parlano di una generazione confusa, ferita, promiscua, esattamente come i suoni che produce, frutto di sintesi HD e sample stravolti.
Tutto quello che serve a una gioventù ‘immateriale’ (e queer) per divertirsi, accettarsi e amarsi per come è.
(Matteo Mannocci)
BEYONCE’
Questa scelta potrebbe suonare fuoriluogo se consideriamo Beyoncé Knowles a buon diritto la migliore artista pop del decennio precedente, il decennio della sua autentica esplosione, dopo la fulminante carriera nelle Destiny’s Child. Gli Anni Zero erano stati gli anni del successo planetario di “Dangerously In Love”, “B’Day” e “I Am Sacha Fierce” e del matrimonio con il rapper partito dal degrado dei project di Brooklyn e diventato il musicista nero più ricco della storia.
ONEOHTRIX POINT NEVER
Durante una seduta dal dentista, stordito dall’anestesia, alle orecchie di Daniel Lopatin, l’uomo dietro Oneohtrix Point Never, arriva il suono di una radio soft rock/pop: 106.7 FM. One-O-Six Point Seven… close enough?
La carriera di OPN è stato sempre caratterizzata da sottili e bizzarri cambiamenti, privi di sterzate brusche, come se volesse mantenere un punto di contatto col passato più immediato, per mantenere il percorso onesto. Lopatin ha iniziato facendo musica sostanzialmente ambient ed è arrivato in “Age Of” ad accarezzare qualcosa di simile al pop. Sempre secondo il suo personale approccio: prendere un ricordo o una sensazione dal suo passato di adolescente negli 80s e ricavarne un’imprevedibile idea musicale, senza scadere nel vuoto revival.
Non a caso è sempre stato difficile catalogare la musica di OPN, nel suo rimbalzare tra synth-pop, ambient, no-fi, synth analogici, suoni digitali, estrema texturizzazione del suono, ma anche ricerca della giusta melodia. La vera grandezza di OPN è stata l’aver anticipato l’onnivorismo musicale che ha caratterizzato la seconda parte del decennio scorso.
Il labirinto musicale di Daniel Lopatin è il più grande ossimoro possibile: perfettamente armonico nella sua totale illogicità.
(Carmine D’Amico)