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James Grey non è Kubrick, però è un umile esploratore dello spazio e nel suo Ad Astra tira fuori il miglior Brad Pitt e crea, visivamente, un’odissea spaziale credibile e incredibilmente attenta all’uomo e alla sua ricerca, maniacale, di senso.
SPOILER ALERT
Pitt nello spazio gioca con il senso della solitudine e il suo personaggio, Roy Mcbride, è legato per complessità e capacità di muoversi in solitaria a Cliff (suo personaggio in Once Upon a time in Hollywood): l’universo di personaggi di Brad si lega all’immaginario profetico e paralizzante di un’icona come Travis Bickle (Taxy Driver).
Ad Indiewire il regista di Ad Astra ha spiegato l’importanza di 2001 per il genere fantascientifico: “Recognizing the weaknesses in most of those genre films, Kubrick turned that to his advantage”, riconoscendo allora i suoi punti deboli Ad Astra si confronta, con coraggio, e si identifica come una profonda riflessione sul cinema di genere. Il viaggio di Brad Pitt è perfettamente intersecato in un universo che tocca Moon, Interstellar e anche riferimenti letterari legati a Gateway di Frederik Pohl o ai romanzi di Clarke.
Il film ruota su una fantascienza meno votata all’azione e alla serialità e molto più interessata dalla ricerca interiore e dal rapporto profondo ed esistenziale tra uomo e spazio. La messa in scena del film è direttamente legata a quest’idea, tutto ruota intorno alle azioni di Pitt e al suo legame con la macchina da presa. Le scelte nella fotografia sono pittoriche, le rotazioni di Roy con il padre con Nettuno sullo sfondo sono leggere, senza peso, come in un dipinto di Chagall.
Altra scena molto significativa è la battaglia con i pirati sulla Luna: per far funzionare la costruzione di questa azione è stato disposto un impianto 3D con telecamere a 35 mm e pellicola a infrarossi, e per l’accuratezza dello studio del nostro satellite sono state fondamentali le immagini in HD rilasciate dalla NASA sulle missioni Apollo. Anche in questo difficile momento l’interazione tra McBride e l’ambiente è fantastica e la battaglia è credibile, anche per la scelta delle armi.
Nonostante l’intensità e l’importanza della scena, il film non si muove su particolari binari da action movie, tutto è strutturato sull’interiorità, sulla ricerca della paternità, di una divinità da trovare nel cielo e fondamentalmente di senso ultimo.
Le catastrofi sulla Terra innescano il profondo viaggio che indaga su temi fuori dalla portata, ma che nell’immensità dello spazio cosmico sembrano più afferrabili, più vicini. Sull’orlo del sistema solare, dove ogni influenza terrestre smette di pesare (non a caso Roy interrompe ogni comunicazione con l’esercito), una risposta non c’è e a rimanere sono solamente domande, profondamente umane.
L’analisi così puntuale dell’intimismo “spaziale” regala al genere una nuova vetta alla fantascienza, toccata recentemente anche da film come “Arrival”.
In Ad Astra ci sono decenni di frame, immagini del telescopio spaziale Hubble, c’è la costruzione di un immaginario scientifico, ma è presente anche la sottile psicologia dell’astronauta, come in “First Man” o “The Martian”. Non può mancare la parte più onirica che si apre ad una serie di domande, come hanno fatto in questi anni “Arrival” o “Interstellar”, e non manca ovviamente la ricercatezza e il dialogo con “2001: Odissea nello Spazio”. James Grey non è Kubrick, ma “Ad Astra” è un’attenta celebrazione dell’immaginario, cinematografico, della fantascienza.
(Gianluigi Marsibilio)