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“Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo,” dico con convinzione dopo la serie di pubblicazioni negli ultimi anni in cui Neil Young si è accompagnato ai Promise Of The Real, il gruppo capitanato dai figli del buon vecchio Willie Nelson che gli fa da spalla sin dalle lavorazioni del disco “The Monsanto Years” uscito per la Reprise nel 2015. In mezzo (tra le varie pubblicazioni di materiale live e/o inedito) per fortuna ci sono stati i vari “A Letter Home”, “Peace Trail”, “Hitchhiker”, tutti dischi che hanno soddisfatto la mia passione questo cantautore che – piaccia o meno – si è definito il più grande nel suo genere assieme a Bob Dylan e Bruce Springsteen e che a dispetto degli anni che passano, gode di ottima salute. Del resto gli argomenti non gli mancano: Neil ha appena chiesto la cittadinanza USA per poter avere l’autorizzazione a votare alle elezioni del 2020 e la cosa dovrebbe andare in porto nonostante il rinvio per questioni di carattere “morale” dato che fa uso di marijuana e questo non viene visto di buon occhio anche se il consumo è legale in molti degli stati. Certo poi resta tutta aperta la questione relativa Pono e sulla quale non mi dilungherò: dico solo che tutto quello che dice sulla qualità del suono è importantissimo, ma che questa qui a parte le speculazioni di carattere commerciale, allo stato attuale sembra essere più una battaglia tipo quella di Don Chisciotte contro i mulini al vento.
Quasi otto anni dopo l’epico “Psychedelic Pill” e “Americana”, Neil ha richiamato attorno a sé la banda (i fedeli Billy Talbot e Ralph Molina, più Nils Lofgren, che entra al posto di Frank Sampedro, dopo aver comunque fatto varie puntate nel gruppo nel corso della storia) e i Crazy Horse sono ritornati in sala per registrare un nuovo album, cioè “Colorado”, il suo trentanovesimo disco in studio e uscito il 25 ottore per la Reprise.
Siamo a Telluride nella contea di San Miguel in Colorado dove abita Neil Young: il disco è stato registrato qui in presa diretta in soli 11 giorni. Il gruppo, prima di entrare in sala, aveva avuto solo gli accordi delle canzoni, mentre il resto è stato lasciato tutto a quella che possiamo definire come “improvvisazione”. Ammesso che questa parola abbia un senso al cospetto di un ensemble che si muove come un corpo solo. Inevitabile di conseguenza e proprio per questa ragione che si possa leggere nelle canzoni quella influenza malinconica dedicata alla perdita di Elliott Roberts, lo storico manager al fianco di Neil Young dal lontano 1967 e deceduto lo scorso giugno. Pezzi come “Olden Days”, costruito su un riff perfetto di chitarra elettrica e soprattutto “I Do” sono i pezzi che si possono considerare più vicini a questo mood. Si alternano pezzi più classici e magari con contenuti di carattere politico e ideologico come “Rainbow of Colors” con pezzi più combattivi come “Help Me Lose My Mind” o “Shut It Down” e “She Showed Me” che riprende in parte il format di “Psychedelic Pill” proponendosi come una cavalcata selvaggia di una buona quindicina di minuti.
Nel passaggio di consegne da Frank Sampedro a Nils Lofgren, il risultato sul piano della sostanza non cambia, il suono è quello che conosciamo bene, anche se “Colorado”, va detto, non raggiunge in nessun modo quelle vette e quei momenti epici che ci aveva regalato il suo predecessore e non è probabilmente uno dei dischi fondamentali del “cavallo”. Non lo definirei altresì un disco solo di mestiere, perché questa sarebbe una definizione riduttiva e che al limite affibbierei più ai “giovani” Promise Of The Real: le vibrazioni elettriche qui sono quelle autentiche “Crazy Horse” 100% e così vale per quello che si può definire lo “spirito”.
70/100
Emiliano D’Aniello