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Eccoci arrivati all’appuntamento più importante, anche se non l’ultimo, con gli Anni Dieci, ovvero la classifica degli album che più hanno segnato questo decennio improntato da un nuovo gusto pop e hip-hop ma soprattutto da una ritrovata vena politica e di diritti all’interno di quella che potrebbe essere considerata, fino ad oggi, una società digitale pienamente cosciente di se stessa, nell’attesa che arrivi la definitiva epoca robotica.
Le altre puntate degli speciali sugli Anni Dieci le potete recuperare qui:
– Gli artisti più rappresentativi degli Anni Dieci
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 1
– Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 2
– I live memorabili degli Anni Dieci
– Le perdite degli Anni Dieci
30. THE GOOD, THE BAD & THE QUEEN, “Marrie Land” (2018)
Studio 13
“Merrie Land”, secondo album a firma The Good, The Bad And The Queen si ritaglia uno spazio importante tra le produzioni degli anni Dieci grazie alla sua intuizione di fondo, cioè descrivere in musica un affresco sociale della Gran Bretagna ai tempi della Brexit: laddove cresce l’incertezza per una situazione in divenire a tre anni dal voto, questo disco non smette di sorprendere ad ogni nuovo ascolto.
Liriche gonfie di malinconia e smarrimento raccontano un paese nel caos tra la denuncia dei potenti (They Don’t Care About Us/They Are Graceless and You Shouldn’t Be With Them, dal brano omonimo) e l’emarginazione della windrush generation (Street Sweepers Leave Your Music/We Don’t Want You Anymore nel vaudeville grottesco di “The Last Man To Leave”); termine quest’ultimo ricorrente nell’album, ma lasciare l’Europa per The Good, The Bad And The Queen equivale in fondo a lasciare la propria terra e radici. Per l’ignoto? La matrice folk risalente all’esordio del 2007 si apre a influenze dub in “Nineteen Seventeen” e alla psichedelia freak e sixties di “Gun To The Head” in cui accanto alla sezione di violini compare il fagotto. Le ballad “Ribbons” e “Lady Boston” mostrano un Albarn in splendida forma nei vertici emotivi dell’opera, che ha nel lavoro in studio di Tony Visconti uno dei suoi punti di forza: arrangiamenti sofisticati e mai ridondanti vestono le canzoni di profondità, rendendo il brano più rock del lotto “The Truce Of Twilight” un classico nella tradizione del miglior Bowie, The Stranglers o il Morrissey di “Ringleader Of The Tormentors”.
Una musica senza confini seppur legata al nostro tempo, al cui interno troviamo racconti che sono macigni per il cuore ma speranza per l’anima. Niente di strano se a produrle sono grandi artisti come Damon Albarn e Paul Simonon.(Matteo Maioli)
29. PROTOMARTYR, “The Agent Intellect” (2015)
Hardly Art
I Protomartyr nascono come una piccola realtà garage/post-punk, stampano in 225 copie la prima tiratura del disco d’esordio “No Passion All Technique” (2012) e poi, inaspettatamente, arrivano a pubblicare per la Hardly Art (sottoetichetta della Sub Pop) i due album successivi e l’ultimo – addirittura – per la Domino.
“The Agent Intellect”, terzo lavoro della band americana, è la fotografia, mappatura psicologica e sociologica di un parte di America, in particolar modo di Detroit (città di provenienza del gruppo), presenza fissa di tutti i testi scritti, mormorati da Joe Casey che si muovono su ritmiche di chitarra-basso-chitarra sempre essenziali e viaggiano per immagini (oscure o meno). L’esempio più significativo di questo modo di scrivere, narrare è – forse – la prima strofa di “Pontiac 87”, in sei versi Casey disegna in maniera potente una scena di vita tra celebrazione religiosa e caos violento di disordini: l’atmosfera confusionale fuori al Silverdrome di Pontiac (sobborgo di Detroit) durante la visita di Papa Giovanni Paolo II nel settembre 1987 – “I recall seeing the pope/Pontiac 1987/Money changing between hands/ Outside the Silverdome/Afterwards a riot broke”.
Cuore concettuale del disco è, però, il funzionamento della mente umana e quanto quest’ultima ci definisca come individui: è il tema centrale dei due brani più poetici e toccanti, dedicati alla madre di Casey, malata di Alzheimer: “Why does it shake?” e “Ellen”. Non a caso, il titolo si ispira alla teoria filosofica aristotelica dell’ “intelletto agente”. (Monica Mazzoli)
28. SLEAFORD MODS, “Austerity Dogs” (2013)
Harbinger Sound
È solo dopo 6 anni di attività e dopo questo disco, il sesto, che il mondo intero si è accorto degli
Sleaford Mods. Con una proposta musicale come la loro, che tende a ripetersi album dopo album,
sarebbe stato facile per chiunque perdersi, sciogliersi in una nuvola di fumo, vanificare nel giro di
qualche stagione la freschezza di una novità diventata subito stantia. E invece è avvenuto proprio
il contrario. Puntando sulla coerenza di un progetto solido (liriche al vetriolo focalizzate su
tematiche politico-sociali recitate con rabbia su basi drum’n’bass minimaliste, con sonorità prive di
qualsiasi elemento ornamentale) il duo di Nottingham è riuscito a costruirsi anno dopo anno una
credibilità invidiabile da molti. Fino a potersi permettere di scatenare un dissing con una band
come gli Idles, accusati di volersi eleggere indebitamente a portavoce delle classi lavoratrici e
quindi, in buona sostanza, di essere dei posers. Senza entrare nel merito di questa polemica, quel
che sembra difficile da smentire è che se oggi, soprattutto Oltremanica, assistiamo ad un
prepotente ritorno della scena punk, Austerity Dogs degli Sleaford Mods ha contribuito non poco
a far sì che questo fosse possibile. (Gianpaolo Cherchi)
27. COURTNEY BARNETT, “Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit” (2015)Milk! Records
Gli Anni Dieci sono stati ricchi di uscite discografiche al femminile. L’album d’esordio di Courtney Barnett, “Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit”, è un piccolo gioiellino di pop chitarristico dell’ultimo decennio: l’artista australiana ha creato, forse anche in maniera inconscia, un proprio stile di scrittura. Chitarre per lo più sferraglianti e sghembe (anche se non sempre), testi tra il cantato, lo “spoken word” e lo “stream of consciousness” (flusso di coscienza): divertenti, (auto)ironici squarci, bozzetti di vita quotidiana, pieni di giochi parole, termini slang (“Debbie Downer”) e talvolta di portmanteau, è il caso del titolo di “Depreston”, neologismo formato dalla fusione di “Preston” (area di Melbourne) e “Depression”. (Monica Mazzoli)
26. WILCO, “The Whole Love” (2011)
dBpm Records
Registrato nell’headquarter “The Loft” di Chicago e prodotto dallo stesso Jeff Tweedy, le 12 tracce di TWL cercano di spiazzare fin dalla partenza. Il primo brano, “Art of Almost”, sperimentale e ardito al punto che sembra di essere in un album dei Massive Attack con base funk e libere inserzioni orchestrali, la voce di Tweedy a fare da collante e Nels Cline che entra come un’auto in una vetrina con un assolo finale da brividi. Basterebbe questo per far capire quanto questo album significhi per la band che fino a quel momento ha fatto della voglia di non accontentarsi un sicuro rifugio dal manierismo e dalla noia. Già con “Yankee Hotel Foxtrot” avevano spezzato un circolo vizioso che rischiava di far implodere il gruppo ma ora l’impressione è quella di volere andare oltre.
È vero che per il resto dell’album i suoni sono sempre i loro, brani che negli anni sono diventati dei classici come “I might”, “Dawned on Me”, “Whole Love” e “Born Alone” in un solo album ancora non escono dalle setlist e sentiti gli ultimi lavori, non valgono uno solo di questi gioielli.
Il mix tra classicità consolidate e nuovi elementi al di fuori dei binari fa di questo lavoro uno dei migliori della carriera della band di Chicago che chiude un periodo ispiratissimo iniziato nel 2004 con gli indiscutibili “A Ghost Is Born”, “Sky Blue Sky” e “Wilco” (quello del cammello) e lasciando un’impronta, che come si è visto, non sono più riusciti a ritrovare, se non a sprazzi, in studio. (Raffaele Concollato)
25. LCD SOUNDSYSTEM, “This Is Happening” (2010)
DFA Records
Gli anni Dieci erano iniziati così. Con una fine, un saluto, un addio che sapeva più di “arrivederci”. E di arrivederci si è trattato, a ben vedere. Il terzo disco di Murphy, un anno prima del temporaneo stop del collettivo e sette anni prima del capitolo seguente (“American Dream”, 2017) chiudeva quella finestra vitale e aggregativa che era stata la scena punk funk.
L’album è quasi una cerniera perché oltre ai consueti riferimenti ai Talking Heads, ai “pari” Rapture e Chk Chk Chk, a Manuel Göttsching, intensifica quel cordone con Bowie, Eno, Fripp che sette anni dopo sarà la parte più in mostra. Arriva quando non c’è ancora nulla di calante in quella storia. Per questo è parso allo stesso tempo intelligente, lucido quanto doloroso, responsabile e amaro nella sua serenità. E ha sollevato qualcosa intorno che verrebbe da chiamare amore. Verso i protagonisti di quella scena e di questa band-famiglia ma anche (in “orizzontale”) verso tutti quelli che l’hanno amata e “coltivata” a ogni latitudine, con quel logo del fulmine DFA tenuto come un santino.
E a inizio decennio era implicitamente chiaro che quello non sarebbe stato un addio totale. Non poteva. Furono lacrime anche un po’ dolci, appunto per questo. Così che quella sorta di fine poté passare davanti ad occhi un po’ gonfi ma anche consapevoli e attenti. Con più speranza, forse, che delusione. Semplicemente, “stava succedendo”. (Marco Bachini)
24 IDLES, “Joy as an Act of Resistance” (2018)
Partisan Records
Se “Joy as an Act of Resistance” diventerà un disco fondamentale nella storia della musica, lo si capirà fra un bel po’ di anni. Una cosa è certa: il secondo album degli Idles è il disco importante, necessario in quest’ultimo periodo. Un blocco di granito enorme, riempito di contenuti. La band di Bristol ha preso a fare quello che ciclicamente determinata musica in generale, in fondo, ha quasi sempre fatto: prendere posizione e affrontare tematiche sociali e sentimenti profondi. Potremmo fare discorsi sugli aspetti meramente musicali e strumentali di un lavoro come “Joy as an Act of Resistance”, ma sarebbe come esaminarlo a metà. Non si può, è un blocco unico appunto, in cui ogni testo ed ogni brano nella sua interezza costituisce una parte su cui si regge tutto l’impianto. Il disco giusto al momento giusto. (Francesco Melis)
23. KING KRULE, “The Ooz” (2017)
True Panther Sounds, XL Recordings
Archy Marshall nel 2017 è un giovane ventitreenne bianco londinese. Alle spalle ha già due dischi, “6 feet beneath the Moon” e “A New Place 2 Drown”, in cui si riconosce da subito, seppure in modo ancora discontinuo, il genio e l’estro solitario. “The Oz” rappresenta la svolta della maturità: un flusso coinvolgente e senza interruzioni, in pieno stream of consciousness, che si dilata dentro a quello che potrebbe essere definito un cupo viaggio notturno, della durata di circa un’ora. A dominare sono i toni caldi e sognanti di “Lonely Blue” e di “Slush Puppy” spezzati da sferzate noise come in “Emergency Blimp” e “Vidual” che hanno quasi l’effetto di un pugno in faccia. Disincanto e passionalità riunite in un impasto sonoro che si serve del blues e del post punk all’interno di una mistura originale articolata in frammenti grezzi ed evocativi. “The Ooz” è un album per tutti, nonostante la spiccata sensibilità black e hip hop, perché può essere goduto secondo diversi punti di vista. E questo è ciò che fa di un disco una riuscita creazione artistica. (Eulalia Cambria)
22. JAMES FERRARO, “Far Side Virtual” (2011)
Hippos in Tanks
Il contributo di Ferraro nello sviluppo estetico e musicale nell’ultimo decennio è stato fondamentale, sin dalla pubblicazione di “Far Side Virtual” nel 2011 si è assistito ad un cambio di paradigma: la nascita della vaporwave, la sua presa di posizione “nostalgicizzante” che man mano si è espansa fino ai confini della musica commerciale con conseguente infrazione nella cultura pop in ogni sua declinazione. La figura umana cede il posto ad un fantasma morente di sè stessa, le banche dati si muovono ad una velocità pazzesca, il mondo antropocentrizzato è oramai saturo di informazioni visive e trascritte.
A distanza di quasi 9 anni da quel progetto James tenta di stabilire un nuovo ritratto del nostro cosmo grazie alla serie di “Four pieces for Mirai”, opera ancora inconclusa ma di cui si è già potuto assaporare le prime due parti: Overture (parte prima) e Requiem for Recycled Earth (parte due). In essi è possibile ritrovare il problema fondamentale legato al rapporto uomo-tecnologia di cui è stato già portavoce nella quasi totalità della sua discografia, ma sostanzialmente spogliato di qualsiasi ironia e speranza. L’artista ci pone dinnanzi al fallimento dell’essere umano: abbiamo divorato il nostro pianeta, non abbiamo saputo controllare ciò che da noi è stato creato costringendoci de facto ad un grigio futuro predestinato, ovvero la fine della nostra specie. (Duccio Pisoni)
21. FLYING LOTUS, “Cosmogramma” (2010)
Warp Records
A detta dello stesso Flying Lotus, la parola cosmogramma indica “uno studio dell’universo, una mappa dell’universo, in relazione al paradiso e all’inferno”.
Il disco intero, concepito in una struttura praticamente a suite, è la musicazione del processo di catarsi di Steven Ellison, recentemente rimasto orfano della madre. Per diversi motivi sorge spontaneo un parallelismo con la pro-zia dell’artista: Alice Coltrane.
È storia nota che, dopo la morte di John Coltrane, Alice attraversò un periodo turbolento, fatto di insonnia, perdita di peso, stati allucinatori. Una accentuata forma di spiritualità la portò ad allontanarsi dai suoni che avevano caratterizzato la sua produzione e a partorire dischi più astratti come Lord of Lords.
Un meccanismo molto simile a quello che porta Flying Lotus a riprendere invece i suoni di un certo jazz e soffiarli nella massa vitrea incandescente dell’IDM, andando a marmorizzare una cosa completamente nuova, ridando nuova linfa ad una determinata paletta sonora, perfino prima di dischi come “To Pimp a Butterfly”. (Carmine D’Amico)
20. KURT VILE, “Wakin’ On A Pretty Daze” (2013)
Matador
Anche se il titolo racconta di uno svegliarsi, c’è una forte componente onirica in “Wakin’ On A Pretty Daze” e del resto il ridestarsi è da uno stordimento. Come una domenica mattina dopo un sabato di bagordi. È la bellezza dell’adagiarsi e lasciarsi andare a quella piacevolezza di chitarre acustiche e elettriche lievemente psichedeliche, cullandosi placidamente ascoltando la voce sorniona di Kurt o coinvolgendosi con i riff convinti e maggiormente rock delle songs di più marcato gusto americano, se non facendosi trasportare lungo strade lievemente e delicatamente folk. “Wakin’…” è un album che riannoda il filo dell’indie-rock in fase di discioglimento negli anni Dieci e lo snoda più in là in territori roots ma anche psichici, come se il rock del futuro dovesse essere doppiamente ancorato sia alla terra che al cielo. (Paolo Bardelli)
19. FKA TWIGS, “LP1” (2014)
Young Turks
Tahliah Barnett ha sempre cercato di essere qualcosa di diverso. A posteriori è il caso di dire che è sempre stata qualcosa di diverso.
I suoi primissimi EP avevano mostrato questa sua plasticità, che le permetteva di infestare con successo sia produzioni minimali che altre completamente fuori dagli schemi.
LP1 resta ancora oggi il lavoro più accessibile di twigs, molto più asciutto nella produzione e meno impenetrabile nelle strutture. La sua forza è il saper cullare l’ascoltatore con un falso senso di sicurezza, dando l’impressione di trovarsi davanti ad un banale disco pop.
In realtà è un disco di R&B estremamente audace, dove la voce e i synth sbilanciati fanno da collante e suturano tutti gli squarci dati dai vari staccati del resto degli elementi. È come se si ballasse su di una impalcatura pericolante, ma che in qualche modo riesce a non crollare e farci precipitare.
LP1 è un disco fatto di dicotomie e di equilibri precari, che inizialmente sembra il debutto di un’artista fragile, ma alla lunga ne rivela tutta la ferocia. (Carmine D’Amico)
18. DAFT PUNK, “Random Access Memories” (2013)
Columbia, Daft Life
Negli Anni Dieci, grazie alla rivoluzione portata da social network e piattaforme di streaming come Spotify e Soundcloud, abbiamo assistito per la prima volta nella storia del music business al ribaltamento del rigido schema “mainstream/underground”, grazie al quale artisti emergenti e sconosciuti sono diventati improvvisamente famosissimi col minimo sforzo economico (e artistico, talvolta). Ora è sufficiente avere dei followers, un video virale, un rumor che si dirama per la rete o una bella dose di culo, e così anche un rapper che scarica le basi da Youtube può arrivare al primo posto delle classifiche mondiali di vendita. Quali sono stati allora gli ultimi colossal musicali nel decennio appena passato, quei dischi per i quali si sono spesi milioni di dollari in produzione, giganteschi cartelloni da esporre sull’autostrada e sponsorizzazioni planetarie? Pochi, e probabilmente il più atteso ed efficace tra questi è stato Random Access Memories, l’ultimo album dei producer più misteriosi del mondo, i Daft Punk. Dopo anni di silenzio discografico interrotto solo dalla colonna sonora del film Disney Tron: Legacy, d’improvviso al Saturday Night Live e nell’edizione del Coachella del 2013 compare sugli schermi il teaser di un pezzo funk irresistibile che rimarrà in radio per mesi e mesi, Get Lucky, col falsetto di Pharrell Williams e la chitarra di Nile Rodgers. Un’anticipazione efficacissima a livello mediatico di un album imperioso, d’altri tempi per ispirazione e minutaggio, nel quale si incontrano icone indie (Panda Bear, Julian Casablancas degli Strokes) e leggende del passato (Paul Williams e Giorgio Moroder, che ancora campa di rendita per il featuring su questo disco), la celebrazione del suono analogico anni ’70/’80 ed una previsione dell’R&b/electro che ora è diventato la norma nelle nostre orecchie.
Ci si può ricordare di questo album incredibile per più di una ragione, dai tre Grammy vinti in un’unica edizione (tra i quali Album Dell’Anno) se si presta attenzione ai premi, all’uso maniacale ed enciclopedico dello studio di registrazione se si è nerd tecnici, o semplicemente perché su Lose Yourself To Dance ci si è concepito un figlio, ma Random Access Memories rimane una delle cose più importanti successe negli ultimi dieci anni di musica pop. (Stefano D. Ottavio)
17. ST. VINCENT, “St. Vincent” (2014)
Loma Vista
Il fatto che Annie Clark abbia atteso il quarto album per il titolo eponimo è manifestazione di un progetto più ampio, perché qui St. Vincent non è più solo un nome d’arte: diviene una maschera teatrale, anzi un vero e proprio apparato scenico, dietro cui la candida Annie si eclissa. St. Vincent emerge invece come una macchina senziente innervata di sinapsi potenziate, che raccolgono schegge di percezione per amplificarle in segnali sonori. Nevrosi, ossessioni, identità scisse, amori perduti diventano battiti di un pulsare robotico, che si spinge continuamente sull’orlo del sovraccarico. E quando, a un passo dalla rottura, riemerge il lirismo malinconico del passato, lo fa come un glitch del sistema, un prodotto accidentale della sovraesposizione sensoriale a cui St. Vincent si sottopone. Sono giorni strani, per i quali Annie ha costruito l’alter ego più adatto: iper-connesso, post-umano, ma irrimediabilmente (ancora) umano.(Stefano Folegati)
16. VERDENA, “Wow” (2011)
Universal Music Group
La libertà artistica dimostrata dai Verdena in “Wow”, nel loro mutare lo strumento dominante dalla chitarra elettrica al pianoforte (distorto) e lanciarsi in un progetto lungo 27 canzoni, è impagabile. Fantasia al potere: si passa da delicatezze acustiche (“Razzi arpia inferno e fiamme”, “Tu e me”) a meravigliose ballate malinconiche (“Sorriso In Spiaggia Pt.1”), da giri blues mascherati per finire in vecchie e consuete esplosioni elettriche. Un viaggio divertito e intrapreso con il giusto stupore, che raggiunge livelli internazionali e si guadagna l’unico posto italiano in questa classifica. (Paolo Bardelli)
15. ARCA, “Arca” (2017)
XL Recordings
Arrivato al terzo LP, Alejandro Ghersi (da lì a poco Alejandra) è già uno dei nomi di spicco della scena elettronica contemporanea. Prima ancora delle sue produzioni, sono le collaborazioni a stendere un tappeto rosso ovunque cammini: oltre ad aver lavorato con Kanye West per le produzioni di “Yeezus”, Arca riesce a diventare il producer-feticcio di Bjork, collaborando massivamente al lavoro su “Vulniculura” e “Utopia”. Oltre a questo, tre EP, un mixtape e due album in cui Arca riesce a esprimere il suono della contemporaneità in maniera tanto cristallina quanto distorta, accennando ritmiche latino americane, giocando con l’hip hop o disegnando assurdi panorami digitali.
Nel 2017 si ha la svolta con il terzo album, dal titolo omonimo. La voce diventa lo strumento principale di Alejandra Ghersi, che canta di amori difficili e spaesamenti dovuti all’accettazione della propria identità. Il trauma è l’elemento cardino del momento forse più alto del disco, “Reverie”, per il quale Arca ci consegna uno dei video più belli e commoventi del decennio per la regia del fido compare Jesse Kanda. Ormai i distorti panorami post-digitali non sono più solo accelerate sperimentazioni, ma gli sfondi della narrazione di Arca, che produce un instant-classic generazionale da godersi tanto su disco quanto in video e soprattutto nelle incredibile performance live con le quali l’artista di Caracas si esibisce nell’anno successivo, tra le quali un’epica apparizione al festival torinese Club To Club. (Matteo Mannocci)
14. KENDRICK LAMAR, “Good Kid, M.A.A.D City” (2012)
Top Dawg Entertainment, Aftermath Entertainment, Interscope Records
Manca qualche settimana alla rielezione di Obama. L’America già segnata dalle prime tensioni razziali che esploderanno nella metà del decennio accoglie nell’olimpo delle voci più rappresentative del nuovo secolo un venticinquenne cresciuto a Compton, area tra le più violente e degradate di Los Angeles. “Good Kid, M.A.A.D City” è il secondo album di Kendrick Lamar, il primo a uscire per una major dopo il promettente Section.80 del 2011, e, come non succedeva da un po’, non solo in ambito black, è un disco che contiene dodici potenziali singoli su dodici tracce. Un lungo pugno nello stomaco che mette in risalgo il devastante flow di Lamar e la ispiratissima scrittura da poeta contemporaneo che di lì a poco lo trasformerà in materia di studio per seminari e corsi universitari fino al premio Pulitzer. I suoi racconti senza filtri arricchiscono la sua perfetta sintesi di rap della West Coast e della costa opposta con beat e basi che danno una svolta musicale all’hip hop del decennio, a due anni di distanza dall’altro capolavoro-bibbia, “My Dark Twisted Fantasy” di Kanye West che aveva idealmente chiuso il capitolo degli Anni Zero.
(Piero Merola)
13. SOPHIE, “Oil of Every Pearl’s Un-Insides” (2018)
Future Classic, Transgressive Records
SOPHIE è senza dubbio uno dei personaggi più chiaccherati degli ultimi anni. La producer scozzese, un moniker senza volto fino al 2018, era artefice di uno dei suoni più sconvolgenti e contemporanei degli anni ’10, che riprendeva la scia tracciata da PC Music ma la superava in intenzioni e risultati, partendo dal bubblegum pop anni Zero e dai circuiti techno più underground per creare incredibili opere sonore di pura sintesi.
Dalle produzioni per Madonna e Charli XCX di metà decennio, passando per inquetanti finte operazioni di sponsorizzazione, SOPHIE è stato uno dei nomi che per anni ha incuriosito e appassionato gli amanti di un certo tipo di musica elettronica, soprattutto per il fatto che non si conoscesse nulla di lei oltre alla sua musica. Nell’ottobre del 2017, la rivelazione: a sorpresa esce sui suoi canali ufficiali il video di “It’s Okay To Cry”, una tenera ballata che si differenziava dalla maggior parte della produzione di SOPHIE fino a quel momento, e nella quale per la prima volta sentiamo la sua vera voce e il suo volto, rivelando al mondo intero la sua transessualità. Elemento questo non di poco conto, che ci permette di rileggere con occhio cosciente tutta la sua produzione e anche il primo disco a suo nome, “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides”. L’album, che si apre proprio con la ballata “It’s Okay To Cry”, mostra un caleidoscopio di esperienze ed emozioni non filtrate che passa dalla tenerezza dell’opening track direttamente alla brutalità di “Ponyboy”, passando per la riflessione sul presente iperrealista di “Faceshopping” e l’anthem generazionale “Immaterial”.
Un disco essenziale per interpretare gli anni Dieci e la generazione che li attraversa. (Matteo Mannocci)
12. DAVID BOWIE, “Blackstar” (2016)
ISO, RCA, Columbia
Blackstar è l’incarnazione finale di Ziggy Stardust. La trasformazione che fa di David Bowie un eroe romantico del XXI secolo che all’arte restituisce il compito di trattenere l’ultima scintilla di una vita sublimata attraverso la musica. L’album, all’apparizione del video del singolo Lazarus, è già portatore di oscuri presagi simbolici e quasi impercettibile appare la separazione del teatrante dal dramma, dell’uomo dalla scena. Tuttavia a colpire è l’assenza di ogni ripiegamento patetico, come se la fragilità e la malattia fossero una manifestazione inevitabile e si potessero quindi cavalcare e farne diventare la materia di un capolavoro. Nelle sette canzoni del disco, prodotte insieme a Tony Visconti e suonate da musicisti jazz professionisti, non sono concessi momenti di stanchezza e gli echi di drum and bass e trip hop si dilatano fino a “I can’t give everything away”. Dopo avere portato a termine anche la missione di esorcizzare la morte attraverso la poesia, con “Blackstar” David Bowie riprende l’astronave che l’aveva portato sulla terra. (Eulalia Cambria)
11. BON IVER, “Bon Iver” (2011)
Jagjaguwar, 4AD
Uno degli artisti più rappresentati della nostra contemporaneità, uno spirito eclettico e tormentato che si esprime con tante forme, non ultima un documentario di ispirazione ecologica. Bon Iver in pochi anni è passato da un manifesto dell’alt-folk ai featuring con Kanye West: sicuramente guardandoci indietro l’elemento più importante di un disco come questo è l’aggiunta di un elemento più profondo alla comune definizione di folk e songwriting USA.
Justin Vernon infatti, nel suo album del 2011, riesce a dare una forma veramente particolare alle canzoni che diventano come arie classiche. In “Bon Iver” c’è un racconto ambientale, pieno di sfumature che hanno portato l’artista di Eau Claire a diventare una vera colonna della musica degli anni ‘10.
Recuperare un disco così, anche oggi, ci offre l’effettiva capacità di guardare Vernon con una luce nuova e più completa. Ecletticità al potere. (Gianluigi Marsibilio)
10. BEACH HOUSE, “Bloom” (2012)
Sub Pop
I Beach House provano a riscrivere con sonorità più calde e americane la breve e controversa parabola del dream-pop. E con risultati anche migliori. Merito di un’essenzialità mai abbandonata. Tastiere e arricchimenti sintetici non vanno mai oltre. E gli avvolgenti arpeggi trascinano l’ascolto in terre lontane e mondi altri senza eccessi.
“Bloom” suona sempre e comunque come una liturgia, un’esperienza spirituale piuttosto che un rito pagano. Magnetico, spettrale. Difficile da identificare in termini più o meno razionali. (Enrico Stradi)
9. ONEOHTRIX POINT NEVER, “Replica” (2011)
Mexican Summer/Cooperative Music
Con il progetto Oneohtrix Point Never, Daniel Lopatin ha da sempre optato per rielaborare stilemi new age, musica concreta, tastiere a pioggia, ma con un approccio più arty, finalizzato al cesellare suggestioni e frammenti di pura poesia sonora. E ogni pezzo (e pezzettino) di “Replica” proviene da campionamenti dall’origine più disparata, a forgiare una onda totalitaria di reminiscenze e ricordi a guisa di note, inserti pianistici, landscape da installazioni artistiche. “Replica” infonde benessere, piacevolezza, un senso del compiuto che non è così facile da raggiungere in questi ambiti. (Giampaolo Cristofaro)
8. NICK CAVE & THE BAD SEEDS, “Push the Sky Away” (2013)
Bad Seeds Ltd.
Le sfaccettature di un disco di Nick Cave sono come sempre complesse, indecifrabili nel profondo e uniche. “Push the Sky Away” è molto diverso per tematiche ai recenti “Ghosteen” o “Skeleton Tree”, il disco rimane un vero flusso di coscienza che spazia e amplia ogni orizzonte. Ogni parola, scritta da Cave, è un universo testuale, inoltre questo album uscito nel 2013 è un vero e proprio campo di confronto tra il re del cantautorato noir e la cultura pop contemporanea. Cave nel disco si mette in relazione anche con un tema che oggi è fondamentale per lui: la memoria. “Wikipedia is Heaven/When you don’t want to remember anymore”, una riflessione che può essere applicata anche alla liquidità totale della musica oggi, fortunamente però ci sono dischi indimenticabili anche in questi anni Dieci. (Gianluigi Marsibilio)
7. FRANK OCEAN, “Channel Orange”
Def Jam
Frank Ocean ha stravolto i canoni del rap del precedente ventennio, o su più ampia scala e più coerentemente con la sua proposta musicale, dell’r’n’b, rovesciandone lo stereotipo estetico e culturale sessista e virile della black music.
Christopher Edwin Cooksey, nome di battesimo di questo ragazzo, schivo e raffinato nato a Long Beach e cresciuto nel profondo sud, a New Orleans, ha cambiato il mito a modo suo, senza gli eccessi e le ostentazioni di grandi icone queer, e con una classe, un gusto e un’ispirazione non comune.
“Channel Orange” è il suo debutto: un album che possiede un fascinoso e sottile equilibrio sempre sul punto di spezzarsi che lo rende di una bellezza che va di pari passo con la sua delicatezza. (Piero Merola/Paolo Bardelli)
6. DEERHUNTER, “Halcyon Digest” (2010)
4AD
“Come on, little boy, I am your friend and I understand the pain you’re in.”
30 Maggio 2019, Santeria di Milano. La prima data italiana dei Deerhunter sta per iniziare e nella sala c’è gente parecchio nervosa. Come è possibile ci sia così poco pubblico per una delle più importanti band degli anni Dieci, si domandano gli ultimi sognatori. Sarà il Primavera Sound a 1000 chilometri, sarà che l’indie non va più di moda da anni, ma si sta comunque parlando dei Deerhunter. Poi inizia il concerto e ci si scorda in fretta del nervoso, trascinato via dalle collisioni chitarristiche di Cox e soci e dalle loro inconfondibili melodie.
Quelle melodie hanno ipnotizzato molte orecchie per la prima volta con “Halcyon Digest”, pertanto sarebbe impossibile, oltre che profondamente ingiusto, non citare l’album come una delle pietre miliari del decennio che sta per finire. È vero, il disco è uscito nel 2010 e in questa classifica si possono trovare artisti di certo più rappresentativi dello Zeitgeist degli anni Dieci. Ciò non toglie che dopo “Halcyon Digest”, i Deerhunter divennero la “band preferita”, quella che portò l’eccellenza del revival shoegaze alle masse che non ci erano ancora arrivate da sole.
Diluita in alienate fantasie (e paure) post-puberali e dolci richiami ad un anarco-empatia universale, la musica di “Halycon Digest” sfiorava e sfiora tutt’ora decine di generi, senza attribuirsene alcuno. La crisalide diventa farfalla e torna crisalide in quattro minuti di canzone, lasciando chi ascolta incapace di trovare le parole esatte per descrivere l’esperienza. Ma tutti hanno sentito qualcosa. Non sorprende allora che i Deerhunter non abbiano smesso di creare grande musica e di essere la band preferita di molti. Semplicemente, sono nati con il dono che solo i grandi artisti possiedono: ci fanno sentire meno soli. (Stefano Solaro)
5. KANYE WEST, “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010)
Roc-A-Fella, Def Jam
Difficilmente si riuscirà a trovare un artista più controverso e criticato di Kanye West nel corso di questo decennio. E questo non solo per il suo endorsement a Trump, per i suoi deliri di onnipotenza e il suo protagonismo. No! Yeezy sta sulle palle a tutti, nell’ambiente hip hop e in quello della comunità afro-americana, per due ragioni molto semplici: la prima è che è un “negro” che rifugge sistematicamente tutti gli stereotipi con cui si vuole identificare il “negro”; la seconda è che è di gran lunga il più bravo, dieci spanne sopra gli altri, dotato di un talento sconfinato e di un’intelligenza musicale che molti si sognano. My Beautiful Dark Twisted Fantasy è forse la prima vera summa del suo talento: un disco profondo che agisce su più livelli, mette insieme mille stili e mille voci (notevoli e variegate le collaborazioni, da Pusha T a Nicki Minaj, da John Legend a Bon Iver). Un disco che è in grado di intrecciare fra loro mille trame sonore senza mai perdere il filo, e dando all’hip hop una nuova dimensione musicale, consacrandolo come uno dei generi musicali dominanti del decennio appena trascorso. (Gianpaolo Cherchi)
4. SUFJAN STEVENS, “Carrie & Lowell” (2015)
Asthmatic Kitty
“Spirit of my silence”, invoca Stevens nell’iniziale “Death With Dignity”: Sufjans scrive tutto “Carrie & Lowell” per quell’esigenza umana di dare voce a quel silenzio indicibile che consegue alla perdita della madre. E così tutto l’album è un delicato affresco di ricordi e domande legate a sua madre Carrie, che lo aveva abbandonato all’età di un anno ma che lo aveva ospitato per alcune estati da bambino in una casa nell’Oregon assieme al suo nuovo marito Lowell, quasi un’esigenza fisica di mettere nero su bianco le sensazioni e cercare dei perché.
Che non ci sono: si può – alla fine – solo pacificare quell’assenza con una presenza impalpabile nel cuore, lontana e sbiadita come una vecchia fotografia e, allo stesso tempo, presente e vivida come una persona che ci parla da un’altra dimensione. “I forgive you, mother, I can hear you”, canta Stevens, e vuol dire che è arrivato a quella pacificazione. (Paolo Bardelli)
3. TAME IMPALA, “Lonerism” (2012)
Modular Recordings
Contrariamente a quelle sbarre che capeggiano in copertina (il cancello dei Jardin du Luxembourg a Parigi), “Lonerism” è un disco libero. Quella libertà che Kevin Parker deve aver respirato lasciando la natia Perth per registrarlo in giro per il mondo durante il tour di “Innerspeaker”, lui che era abituato a incidersi fin da piccolo nel garage di casa per cui ogni posto del mondo era casa. È un tripudio di flanger, di invocazioni pop alla vita fatte di lisergiche canzoni che entrano nella psiche e ti fanno viaggiare assieme a Parker e al suo stupore di fronte alle infinite possibilità della musica: synth ondeggianti, assoli infiniti, dialoghi mentali, organetti sixties, esplosioni di fuzz, stupore all’interno di una confusione sonora bellissima come è la cameretta di un adolescente piena stipata di poster e oggetti. È, nel suo profondo, un album che crede nella musica e nella sua eterna capacità di autogenerarsi, ed è per questo che è così bello. (Paolo Bardelli)
2. FRANK OCEAN, “Blond” (2016)
Not On Label
“Blond” è un ritratto autobiografico, sincero, tormentato e senza filtri di uno degli artisti più complessi della scena americana. Non ha momenti ammiccanti e movimentati o immediatamente pop/funk/hip hop come il suo illustre predecessore. Piuttosto è un album fatto di momenti introversi, di ballad, fatto di poche basi, tante collaborazioni di lusso e di intermezzi incompiuti. In controtendenza con il trend generale, è un album pieno di chitarre e strumenti veri, freddi, distanti, ma in qualche modo avvolgenti come un disco soul d’altri tempi, un classico R&B o un album folk-rock degli ultimi due decenni.
Frank Ocean, icona contemporanea, sobria e illuminata del mondo queer, ci guarda da un’altra galassia, come i grandi miti del passato. (Piero Merola)
1. KENDRICK LAMAR, “To Pimp A Butterfly” (2015)
Top Dawg Entertainment/Aftermath Entertainment/Interscope Records
Se la black music di protesta ha raggiunto milioni di persone in tutto il mondo in uno dei decenni più duri per la comunità afroamericana buona parte del merito è di Kendrick Lamar. Il rapper di Compton nel suo terzo album riesce a reinterpretare in chiave contemporanea mezzo secolo di black music, dal funk al g-funk passando per Tupac, il jazz, il soul e l’old school con un ubriacante immaginario lirico che trasforma il racconto quotidiano di violenze di strada e drammi a sfondo razziale in un parabola di un’America in fiamme. Con brani già immortali come “Alright”, “Institutionalized”, “These Walls”, nella sua traiettoria tormentata, contraddittoria, piena di spettri, dicotomie e lati oscuri, enigmatica, ma incredibilmente coerente, “To Pimp a Butterfly” e “Institutionalized” è il disco più importante del decennio che ha portato gli States dal sogno obamiano all’incubo trumpiano. (Piero Merola)