Share This Article
In tempi di Brexit, riascoltare “London Calling” dei Clash è salutare. A 40 anni di distanza (qua-ran-ta!) la sua forza rimane immutata e – oggi come allora – fa chiedere (più agli inglesi che a noi, a dir la verità)… Londra sta continuando ad annegare?
“‘Cos London is drowing and I live by the river”
Londra chiama e il mondo risponde, anche a quarant’anni di distanza. La genesi di questo capolavoro del rock risiede nell’incisione del marzo 1978 del singolo dal gusto ska “(White Man) in Hammersmith Palais”, dove Joe Strummer annuncia lo smarcamento dei Clash dalla rivoluzione (tradita): “Punk rocker in the Uk/They’re all too busy fightin’/For a good place under the lightnin’/Better Find Another Solution”; il resto lo fa la musica che in seguito all’interlocutorio “Give Em Enough Rope” e al divorzio dal manager burattinaio Bernie Rhodes si fa più libera e personale, trascendendo le mode e gli avvenimenti politici in una reinvenzione del rock’n’roll con lo sguardo dritto al futuro. La volontà di rischiare è evidente tanto dal concept, un doppio album di diciannove canzoni da vendersi al prezzo di uno, quanto dall’ingaggio di un produttore sopra le righe come Guy Stevens: eroe di Mick Jones, autodefinitosi “l’altro Phil Spector” aveva già lavorato per gli Stones, The Who e Mott The Hoople.
“London Calling” è una collana di gioielli dal valore inestimabile. Tra la celeberrima title track e il brillante r’n’b di “Train In Vain” (come “Guns Of Brixton” oggetto di samples di Garbage, Cypress Hill e Afghan Whigs tra gli altri) trova spazio il combat-folk in “Spanish Bombs”, il glam romantico di “Lover’s Rock” e l’hard-rock di “Clampdown”; non mancano omaggi impliciti ai grandi dischi che lo hanno preceduto, se è vero che “The Card Cheat” non avrebbe sfigurato in “Darkness On The Edge Of Town” di Springsteen o “The Right Profile” nel caleidoscopico “Exile On Main Street”. Ma quanti artisti hanno basato una carriera su “London Calling”? Penso a Manu Chao dentro la sincopata “Rudie Can’t Fail” e ai Libertines nei riff incendiari di “Death Or Glory”… Nei giorni in cui la Gran Bretagna decide il proprio futuro mi sembra necessario tenere a mente la lezione di “London Calling”, uscito il 14 Dicembre 1979.
(Matteo Maioli)
Si potrebbe partire da qui: a 40 anni di distanza esce un album nel quale una delle canzoni di punta, “Sha Sha Sha” cita in maniera evidente, nelle sue nervose pennate di chitarra elettrica, “London Calling” (stiamo parlando, ovviamente, dei quotatissimi Fontaines D.C.). Come a dire che non sono passati invano, questi 40 anni, che i buoni insegnamenti restano, volteggiano nell’aria e all’improvviso – quando meno ce se lo aspetta – ritornano.
Sono davvero tanti, 40 anni, fa impressione solo a scriverlo quel numero. E pertanto credo sia fondamentale annotare l’effetto che fa riascoltare “London Calling”, l’album, a livello emozionale, oggi, cercando di mondare il lato nostalgia e quello che è già noto. L’approccio che ho seguito, questa volta, è stato solo abbandonarmi all’ascolto e vedere che sensazioni arrivavano: la prima è stata quella di una freschezza giovanile naturale (considerazione, mi accorgo, un po’ banale) poi è soggiunto uno stupore per la volontà di rischiare che i Clash perseguivano cambiando genere a ogni brano, libertà espressiva che oggi è difficilmente riscontrabile all’interno dello stesso album. Mi sono ri-innamorato, come ogni volta, del basso di Simonon: ognuno ha il proprio eroe nei Clash, e il mio è Paul o, meglio, il suono del suo basso: non si può equalizzare meglio un basso di quello di “I’m Not Down” o, su toni più morbidi, di quello in “The Guns Of Brixton”. Mitologico.
“Revolution rock, it is a brand new rock… Brand new beat / This here music mash up the nation / This here music cause a sensation”: siamo sempre alla ricerca, oggi come allora, di questa rivoluzione, che sia rock, hip-hop, reggae o racchiusa in una mazurka.
(Paolo Bardelli)
È una bella responsabilità, va detto, celebrare il quarantennale del disco più importante di una delle band più importanti di sempre. Anzi, the only band that matters.
E pazienza se questo pseudonimo nacque come slogan pubblicitario, coniato dalla label CBS per promuovere la band londinese, fresca di firma con la major. Mai soprannome fu più azzeccato, a giudicare dall’aura quasi religiosa che circonda i Clash ancora oggi, nel quasi 2020. E chi scrive, mente lo scrive, dà un’occhiata alla foto in bianco e nero di Joe Strummer e Mick Jones appesa, incorniciata, alla parete.
Il tratto più sconvolgente di “London Calling” non è il suo essere mostruosamente attuale, cosa che si può dire di molte delle pietre miliari dell’epoca d’oro del rock. No, ciò che rende quest’album unico (come altro descriverlo) è il suo essere rigorosamente democratico, socialista, inclusivo, la sua capacità di parlare a tutti, di entrare dritto nell’orecchio anche al millesimo ascolto.
E di farti sentire vivo, ogni volta.
Il primo dei due dischi contiene, da solo, così tanti pezzi leggendari, che presi singolarmente basterebbero a plasmare la carriera di una qualsiasi band di ieri, oggi o domani.
Inutile spendere molte parole su brani di cui si è scritto moltissimo. Ma se, per gioco, se ne prende uno a caso, diciamo “Clampdown”, dentro si trova tutto. C’è la politica, e che politica. Quella che oggi è scomparsa, spazzata via, polverizzata. Un urlo contro il razzismo, il capitalismo, lo svilimento dell’essere in cambio di un completo blu. Un urlo contro la repressione.
Prendiamo invece il secondo disco, quello più sperimentale, che darà un’anima al tutto, che porterà a “Sandinista”, alla world music, alla contemporaneità. Lo si ascolta e, ancora una volta, non si può che atterrare lì, all’ultima traccia. “Train in Vain”, pezzo che compare in più o meno tutte le classifiche delle migliori canzoni rock di sempre, è una canzone di amore, nient’altro. Di un amore che finisce, tutto qui, eppure.
Eppure.
di Stefano Solaro