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Martin Scorsese è spaventoso e il suo “The Irishman” è un monumento statuario di bellezza che porta su Netflix un’opera che ci dà delle chiavi di lettura importanti sulla storia artistica del regista. In questi ultimi anni il regista ha spiazzato e incantato con film atipici, e molto distanti tra loro, come “Silence” e “The Wolf of Wall Street”.
In “The Irishman” c’è una somma, un’unione tra la sacralità del film sui missionari giapponesi ma anche la sfrontatezza del lupo di Wall Street. Il film su Frank Sheraan è una chiusa perfetta al decennio di Scorsese, che si conferma non solo redivivo ma si attesta ancora come un autentico esploratore.
Il direttore della fotografia del film Rodrigo Prieto si muove con una sinuosità perfetta tra le oscurità e i lunghi piani del film. Il clima che il film restituisce è shakespeariano, cupo. Le tenebre mangiano gli occhi, le anime di chi guarda il film, tutto sembra pensato non da Charles Brandt, autore del libro che ha ispirato il film, ma da Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
La tensione è forte, continua e si accende in tre ore e più di film che continuamente sprigionano tensione e nuove linee narrative.
Le tecnologie CGI applicate rendono i personaggi centellinati per il racconto di Scorsese e rendono vera e vitale la riflessione dedicata anche all’invecchiamento, alla senilità ma anche e soprattutto sul senso di maturità. Anche i gangster crescono, maturano, invecchiano e forse muoiono. Le polemiche sull’uso di questa tecnologia sono state tante e hanno effettivamente impantanato anche la realizzazione del film, in cantiere dal 2007.
La chimica creata sul set e tra i personaggi però è molto simile a quella rintracciabile in “Casinò” o “Quei Bravi Ragazzi”.
Sul NyTimes si è parlato del film in termini di monumento ma ripensando alla definizione, presa in prestito anche nell’inizio di questa puntata di Vision, forse possiamo notare come storia e storytelling del lavoro siano molto più vitali di una statua marmorea. C’è una dinamicità nella trama che ancora oggi permette a Scorsese di essere un demiurgo, un plasmatore assoluto nell’arte cinematografica. The Irishman è quindi monumentalità ma si accende nel racconto dinamico e mai noioso (elemento non banale per un film di tre ore) che celebra un genere, un’opera, un’intera carriera.
Il film è un punto definitivo degli anni ’10, una vetta altissima (forse la più alta?).
Il racconto gioca con gli equilibri, le capacità attoriali e le fragilità umane, ma si muove anche sul filo della storia tra Guerra Mondiale, criminalità e ricerca di identità. Nel film traspare il profondo senso del concetto del peccato, della colpa e la sua espiazione. The Irishman si muove, con molto più “rumore di fondo”, su temi toccati anche con “Silence”. Nel lavoro c’è la pura epica del racconto, la sensibilità di scoprirsi “untouchables”.
Nei prossimi giorni sarà il momento di dedicarsi alla scelta dei film più rappresentativi di questi anni Dieci. Se avete consigli e suggerimenti sulle pellicole che devono ASSOLUTAMENTE finire in classifica, mandateci la vostra opinione. (Potete mandare i contributi direttamente su Kalporzfb@gmail.com)